6 agosto 2010

Identità - NuDISti puntata 3


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Identità.
Ecco, sinceramente non è una parola in cui credo molto.
A me sa tanto di fascismo. Nazionalismo. Di "Noi siamo i migliori, e perchè cambiare? Stiam bene così, no? Abbiamo le nostre usanze, ci viviamo decentemente. Abbiamo un'identità".
L'ego, il gruppo, la stessa famiglia, lo stato.
E chissenefrega del diverso.

Io non credo di riuscire a parlare obiettivamente di me, anche se poi è più o meno quello che tento di fare da tre settimane.
In ogni caso, se dovessi dare una definizione del mio minuscolo ego, direi che sono uno che ha voglia di ascoltare gli altri.
Perché  sono fondamentalmente egoista e cerco di migliorare me stesso. Perchè credo sia giusto così. Forse perché mi sentirei in colpa a fare altrimenti.
O forse, più semplicemente, perchè non credo che la mia identità sia importante e definita. Così importante e definita da permettermi di chiudermi e "ciao, amici, è stato bello".
Non sono di quelli si vestono di nero, borchiati, per dimostrare qualcosa. In camera, a parte uno sticker di Londra – peraltro rotto da mia madre -, qualche cd buttato nell’armadio e un paio di libri buttati alla rinfusa sul comodino, non ho nulla di mio.
E credo che in fondo sia giusto così.
O magari è solo perchè sono curioso. E se qualcuno mi parla di un libro, un pezzo di un gruppo giapponese degli anni 70 o una pizzeria, eh, non voglio fare l’intellettualoide da due soldi, io DEVO provare.
E se va male, non è così importante.

Però.
C'è sempre un maledetto però.

E' che a volte si ha voglia di farsi notare, banalmente.
Non avere voglia di ascoltare, ma di farsi ascoltare.
O forse, più semplicemente, di farsi capire.

E allora magari è stupido attaccare una spilletta dei Beatles o – peggio ancora - dei Modena City Ramblers allo zaino, o avere uno sticker di Londra in camera, o andare in giro con i capelli lunghi.
O magari è stupido leggere "Gente di Dublino" alle undici meno un quarto in pieno centro, davanti a quella specie di colonna dalle vaghe parvenze falliche che i Campobassani sono soliti chiamare “ monumento dei caduti, e la gente che ti passa davanti con una voglia matta di chiederti cosa cazzo tu stia facendo, a quell'ora, con quelle spille, con quei capelli e quel libro.
Magari è stupido. Anzi. Sicuramente è stupido. E me ne rendo perfettamente conto.
E la gente del resto non perde l’occasione di farti notare quanto tu sia stupido. Si paga a caro prezzo il nostro esporci all’attenzione degli altri. Magari vieni notato, ma nessuno vuole stare ad ascoltarti. Magari vieni ascoltato, ma nessuno ha davvero voglia di capirti. La verità è che la maggior parte delle persone ha la stessa apertura mentale di un prete degli anni ’50. Anche se proprio quelle persone hanno 20 anni, si ubriacano tutte le sere di musica orrenda e “un’altra pinà colada, prego” – non che abbia qualcosa contro le pina colada, intendiamoci – e vanno in discoteca e ascoltano David Guetta. O meglio. Forse proprio per questo motivo.
Intendiamoci, io non credo di essere migliore di loro. Probabilmente, se ne avessi l’opportunità, mi comporterei come loro. Probabilmente, in questo momento, io mi sto effettivamente comportando come loro, criticandoli.
Ma non è tanto questo il punto.
La gente magari te lo chiede, cosa cazzo tu stia facendo. Con quell’aria lì. Con l’aria di chi ha cose migliori da fare, con l’aria di saperne più di te. Con l’aria di “Vai a divertirti, te. Cosa ci fai qui?”
Non si è felici quando si capisce di essere diversi dalla maggior parte degli altri. Non migliori, eh. Assolutamente. Solo, un po’ diversi.
Ma quel momento lì. Quel momento in cui un signore sulla sessantina ti guarda, sorride, ti chiede cosa stai leggendo. Ti dice che quando aveva la tua età - e ormai sono passati tanti anni, giovanotto – anche lui aveva letto quel libro. E che quel libro, Gente di Dublino, lo ha segnato. Che Joyce è un grandissimo narratore, che fa riflettere, sognare, viaggiare. Che quel libro l’ha letto 3 volte, una volta per ogni fase della sua vita, e ogni volta gli era sembrato diverso, perché a ogni età si colgono aspetti diversi delle cose, perché le si guarda da diverse angolazioni, diversi punti di vista.  E che dovresti leggere anche l’Ulisse e Finnegans Wake. Perché sono ancora meglio, te lo assicura. Perché anche Joyce era andato via dalla patria, dall’Irlanda, da Dublino, dalla SUA Dublino, perché non era notato, perché non era ascoltato, perché non si sentiva capito. Come lui 40 anni fa non si sentiva capito. Come probabilmente tu – adesso, giovanotto -  non ti senti capito.
Quel momento, dicevo.
Quel momento in cui senti di aver trovato un posto, una casa, nel cuore ( anzi, va, diciamo nella mente ) di una persona con 40 anni più di te, ma più giovane di tutti gli altri che conosci.
Quel momento, quel preciso istante.
Quello vale una vita.

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