31 dicembre 2010

Condivisione

Da che deriva la nostra solitudine? Il nostro bisogno di sentirci compresi?

A volte bisognerebbe chiederci quante cose facciamo realmente per noi e quante semplicemente per sentirci accettati.
Quanta parte del tempo sia davvero nostra, e quanto invece ne sprechiamo in azioni effimere, sconsiderate o, al più, inutili.
Quanto il miglioramento del nostro animo, la tensione verso l'alto sia sentita, e quanto invece ci serva al raggiungimento dell'unico scopo della nostra vita.
La condivisione.

Ne avevo già parlato, a suo tempo.
Ed è successo di nuovo, ieri.
Un signore che, sull'autobus, vedendomi intento nel "Così parlo Zarathustra", mi ha chiesto cosa stessi leggendo. Un sorriso, un commentino genere "certo che Nietzsche può essere un po' esagerato, a volte, ma scrive proprio bene", un'osservazione sulle traduzioni di un tempo che "potevano essere più complicate, ma come rendevano bene il testo".

Ecco, io non riesco a capire la soddisfazione che ce ne deriva.
Ogni volta.
Ogni volta che qualcuno si infila nostro piccolo limitato mondo.
Ogni volta che "troviamo casa nella mente di qualcuno".

Come se il solo piacere che derivi da ogni azione della nostra vita sia la condivisione.

(Non lo scambio, eh. Chè quello non solo è inevitabile ma costruttivo.
Per quanto legare persone e concetti alla lunga possa far male, ma questo è un altro discorso.)

Non lo scambio, dicevo, ma la condivisione. Il sentirsi appartenenti allo stesso gruppo. Avere gli stessi valori, gli stessi interessi. Credere nelle stesse cose. Sentire di avere lo stesso "Erlebnis".
Come se ogni certezza fuggisse nel momento in cui l'altro con cui relazionarsi non ci fosse più. Come se rimanesse solo il nostro sporco, inutile io.

Sì, sentiamo di avere bisogno di conferme.
E se non le abbiamo, il nostro mondo vacilla.
Come quando da piccoli ti spostavano la sedia e per un attimo tutte le leggi fisiche ti sembravano alterate, e non capivi come fosse possibile che tu stessi cadendo, proprio in quel momento, proprio lì.

Il continuo terremoto dell'io.

27 dicembre 2010

L'idiota - parte 1 di 4

Il segreto della vita è non ripetere gli stessi errori.
Perchè il dolore, lo sai, porta alla conoscenza.
E la conoscenza porta alla felicità.
Perchè rileggere le vecchie parole non aiuta a superare.
Anzi, rinnova la sensazione di abbandono.

Perchè, mio caro principe Myskin, già abbandonato una volta ( e solo ora ne ricordo il motivo ), certe cose non hanno una ragione. Non esiste un motivo.
Nastas'ya Filippovna era davvero la donna più bella, la donna più pura, un angelo che ti avrebbe salvato. L'unica degna del tuo innocente e gioioso amore.
E tu eri davvero l'uomo giusto per lei. Quello che aveva sempre sognato.

E avreste davvero avuto una vita felice, mio caro principe Myskin, con il milione e mezzo di rubli della tua eredità, e non te ne sarebbe importato nulla di quegli inetti, stupidi, mediocri mortali che non capendo il tuo animo ti chiamavano "idiota".
Perchè idiota è chi idiota fa, avrebbe risposto un tuo alter-ego, 130 anni dopo, in uno dei film più belli che il mondo abbia creato.

E invece no, mio caro principe.
Nastas'ya non c'è più. Andata via, scappata con il vile Rogozin.
Senza ragione, senza una colpa.
E ora sei qui, a perdonare. Per il tuo animo meravigliosamente puro, scevro di ogni contaminazione.
Probabilmente troverai anche tu la tua felicità. Magari quella Aglaya sposerà la tua ricchezza, e riuscirai a fartela bastare.

Ma io, carissimo principe, della tua storia non voglio saperne più nulla.
Oscura mi rimarrà la tua sorte, come oscuro è il destino degli uomini giusti, liberi, che nulla pretendono, che nulla ottengono.

Non so se avrai Aglaya. Non mi interessa. Non voglio leggerlo.
La tua Nastas'ya non c'è più.
E perchè andare avanti, mio amato principe?

22 dicembre 2010

Requiem per una supplenza

A me i tipi come te fanno impazzire.
Sai, quelli che quando li vedi non puoi non pensare "ma perchè?".
Ma perchè una bella donna, sueggiù trentacinquenne, che ha studiato filosofia, fa così?

Ti capisco, io. Ti capisco davvero.
Amore per il mondo ma disprezzo per l'umanità, forse.
Rivalutazione dell'apparenza.
O magari non so cos'altro, ma ti capisco.

Ti capisco, e capisco la tua buona fede.
Il messaggio era di pensare con la propria testa, senza lasciarsi attirare dal pensiero massificato dei nostri tempi squallidi, dai quali si vede che cerchi di fuggire. Con la tua ultima gonna lunga fuori moda. Con la tua collanona bianco-verde-rossa da 10 euro alla bancarella del corso.

E non era un cattivo messaggio, eh.
Oddio, magari se ne son visti di migliori. Se non altro di più originali.
Però davvero di fondo andava bene.

E capisco anche le tue difficoltà.
Il doverti dare un tono, chè a 35 anni e da appena arrivata nel liceo non è poi così facile.
Lo gestire così tante persone, chè 25 pazzi in una classe sono tanti, troppi, checchè ne possa dire qualche pazzo ministeriale.
I possibili commentini sulla tua presunta vita sessuale, chè quelli ci sono sempre, e immagino tu lo sappia, e immagino ti diano fastidio.

Quindi, davvero, te lo ripeto. Lo capisco.
Ma come puoi non accorgerti che il tuo messaggio non può passare, così?
Che non si può predicare di pensare liberamente per poi soffocare qualunque forma di espressione non autorizzata da te?

Come puoi non capire che impedire a una persona di - chenneso - andare in bagno perchè-non-l'hai-chiesto-da-posto non ti fa sembrare più autorevole, ma solo ridicola?
Che ogni "shh, ragazzi, epperfavore" è un passo verso l'incomunicabilità?
Che i tuoi 9, che i tuoi "allora in gamba, eh" -con quelle premesse- diventano non uno sprone ad andare avanti ma nient'altro che uno dei soliti complimenti di terza fascia da professore immerso nel suo mondo ad alunno sprofondato nel suo altro mondo?

Boh, peccato.
Peccato perchè magari il tempo avrebbe cambiato le cose.

Perchè, alla fine, la risposta al "perchè fai così" è una sola.
La più banale, la più grave.

Perchè non te ne rendi conto.
E mi dispiace. Davvero.

17 dicembre 2010

Il mio amato nulla

E stupirti delle pieghe che prendono le cose.

Chè vivi immerso nella tua quotidiana abitudinarietà.
Mangiare, tornare a casa, uscire, dormire.
Roba già detta, lo so.

E avere paura di quelle abitudini. Del loro tornare. Del loro accoglierti nel loro stretto, angusto ripostiglio di pace, sicurezza e noia.
Del loro caldo cantuccio di paure sottaceto.
Perchè ciò che è giusto è giusto. E ciò che si deve fare si deve fare.
Nothing more than that, my dear.

E sentirselo dire da tutti. Che è sbagliato intendere la vita così. Che l'eterno ritorno è una stronzata. Che il bisogno di emancipazione. Che il crescere. Che la vita.
Che la vita è vita, e non abitudine.
Non "lavare denti tre volte al giorno". Non "fare abbondante colazione". Non "finire compiti". Con la "o" di compiti rigorosamente chiusa, ovviamente.

Che la vita è vitalità, inconsapevole bisogno di pienezza e azione.

E allora tu ci provi, ad uscire fuori dai ranghi.
A darti le tue regole.
Solo tue, chè quelle altrui magari possono anche andare bene, ma sono altrui e allora no, bene non vanno affatto.
A mettere i tuoi sacrosanti puntini sulle tue sacrosante i.

A rivestirti di dionisiaco. E lo sai che la metafora è stantia, e Nietzsche sopravvalutato, ma non te ne frega un cazzo.
Ebbro del tuo spirito vitale, creatore, distruttore.
Chè Apollo è morto, come Dio. E gli inerti mantenitori di apparenti equilibri da due soldi, qui dentro, tu non li vuoi più.

Ci provi a parlare la tua lingua. A osare.
A spogliarti della tua mediocrità.

E poi.

E poi ti ritrovi qui, e per amici la tastiera e De Gregori, e la voce dentro di te che sussurra "fanculo".

Ma ora, mondo.
Mondo crudele, mondo stantio, ottuso mondo che non capisce un cazzo.
Ora, squallido mondo che ride.
Che dileggia, che offende. Che sputa in faccia alla bellezza e alla verità.

Mondo nei confronti del quale non eri mai stato così offeso.
Mondo che non capisce lo scarto tra realtà e ideale.

Mondo. Vero, regolato mondo di merda.
Almeno sei contento, ora?

2 dicembre 2010

Un bacio



"Nel momento in cui questo libro va in stampa, l'omosessualità è un reato in 80 paesi del mondo."
E' così che si apre la nota conclusiva dell'ultimo romanzo di Ivan Cotroneo, "Un bacio".
Certo, il tema dell'omofobia non è nuovo. Forse non se ne sentiva il bisogno, di un altro intellettuale che ci spiegasse perchè discriminare è sbagliato.
Non è nuovo. Anzi, potrebbe sembrare ormai logoro.
Saggi, report giornalistici, quelle tanto pretensiose quanto controproducenti campagne pubblicitarie genere "siamo tutti diversi, rispettiamo la diversità".
Ma il migliore articolo di opinione, la migliore inchiesta del migliore settimanale italiano non ha un decimo della forza emotiva di una storia interessante, raccontata bene.

Liberamente ispirato alla vicenda del californiano Larry King, "Un bacio" racconta la storia di Lorenzo, adolescente omosessuale innamorato del compagno di classe Antonio, del loro bacio e di un "atto di violenza", come recita il retro della copertina.
Il racconto si snoda attraverso tre diversi punti di vista: per primo parla il protagonista, poi Elena, insegnante di lettere, quindi Antonio.

Non c'è una vera e propria trama. Non c'è un inizio, uno svolgimento, una conclusione.
Solo due istanti, ugualmente decisivi. Due attimi da fotografare, e da rivedere fin quando restino impressi nella memoria del lettore. Due "kodak moments", direbbero gli Inglesi.
Quello del bacio, ovviamente, da cui il romanzo prende il titolo. Tre, quattro secondi di pura e infantile gioia per Lorenzo, al quale sembra di essere nato solo per vivere quella sensazione; un oscuro nulla per Antonio, troppo legato agli stupidi pregiudizi inculcatigli da una famiglia opprimente e da un gruppo di amici tanto influente quanto negativo per la sua personalità.
Due momenti, dicevo. Quello del bacio e (SPOILER!) quello della morte del protagonista.

E' proprio l'opposizione irriducibile tra amore e morte l'elemento che colpisce di più durante la lettura. Il senso di rabbia e di ingiustizia per l'assurda fine del protagonista traspare da ogni pagina. Eppure, Cotroneo non ricorre a interventi personali per far trasparire il suo punto di vista. Anzi, tende a scomparire dietro ai personaggi che crea.
Usa addirittura il vecchio trucco, che funziona sempre, di inserire errori grammaticali e sintattici che farebbero gridare allo scandalo qualche avventato purista della lingua.

Molto interessante è il modo in cui l'autore ci presenta i personaggi. Cotroneo non cade mai nell'errore di offrirci dei modelli di comportamento. Nessun carattere è totalmente positivo o totalmente negativo. Lorenzo, che finisce comunque - ovviamente - per attrarre la nostra simpatia, ha tanti lati oscuri. Elena, l'insegnante, è talmente persa nel suo sogno d'amore per l'ex allieva trasferitasi a Milano da non accorgersi del pericolo incombente. E Antonio, d'altro canto, è solo un povero ragazzo che vive in una società perversa. Una società che isola il "diverso" e tutti coloro che - in un modo o nell'altro - a quel "diverso" si trovano vicino.

E' dunque un libro che si rivolge a tutti, questo, perchè possa cambiare in meglio quella società descritta con tanto astio.
Ma è un libro che trova il suo lettore ideale nei membri di quelle due generazioni raffigurate nelle immagini di Antonio e Elena.
Il primo che, come tutti gli altri, ha sostituito i suoi sogni e la sua vita con le "frasi vecchie e consumate" dei compiti in classe. Che ha già "rinunciato alle parole". Che ha già rinunciato a tutto il resto.
La seconda, delusa dalla sciatta piattezza di un mondo di burocrati da cui non riesce a scappare.

Un libro da leggere, dunque. Nonostante qualche inevitabile clichè, nonostante la già indicata non proprio originale scelta del tema.
Da leggere, magari, con in sottofondo un bell'album degli Smiths, citati in quarta di copertina.

Perchè, come diceva Salinger, "quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira".
E a me, di chiamare Cotroneo, alla fine la voglia è venuta.