21 dicembre 2011

Il matrimonio moderno

"Quando Kormak chiese in sposa Stengerde e, pensando alla loro felicità futura, compose per lei:
Una fuga d'amore fuggiamo,
senza andar in nessun luogo,
nella dimora di Freja
riposeremo, ebbri di gioia
e canti gioiosi ci correranno intorno
accadde che
con franchezza gli rispose
la giovinetta:
una fuga d'amore fuggiamo
verso una meta.
La dimora di Freja
traverseremo, ebbri di gioia,
perchè la nostra felicità
ci chiama altrove.
Allora lui le parlò solennemente del libero amore, ma lei rispose parlando del matrimonio; e dalla diversa concezione che avevano del loro amore e della felicità insita nell'amore derivò tutta la loro infelicità.
Infatti, dove l'amore è legge suprema e la dimora di Freja la meta finale, il rapporto tra uomo e donna è un rapporto d'amore, e, idealmente, un rapporto d'amore libero, sia o non sia consacrato da sacerdoti e funzionari, come doveva essere anche quello di Kormak e Stengerde.
Ma il rapporto d'amore tra un uomo e una donna diventa matrimonio quando i due si uniscono nella convinzione che i sentimenti personali, indipendentemente dall'importanza che hanno per loro all'inizio, debbano servire e subordinarsi a un'idea che per entrmambi è superiore all'amore stesso, un'idea tale da pretendere solitamente tutta la loro vita, se non di più.
Nel corso del tempo molti matrimoni e rapporti liberi, come quello di Kormak e Stengerde, sono crollati per il continuo titubare tra l'uno e l'altro di questi due ideali."

13 dicembre 2011

Memoria delle mie ragazze tristi

Quando la mia prima ragazza mi lasciò, passai (capita a tutti) attraverso il tipico periodo di acceso dibattito interiore tra una ragione che mi incitava a lasciar perdere la questione e a concentrarmi in altro e una parte dell'intelletto - più o meno profonda di quella, non si è mai abbastanza bravi in queste cose per poterlo affermare con certezza - che non si dava pace, agitandosi vorticosamente tra i due opposti poli del sentimento e dell'odio.
Inutile dire che la ragione ben poco poteva contro quella forza. Altrettanto inutile affermare che nessuno avrebbe potuto distogliermi da quel conflitto.
Fu in uno di quei pomeriggi di discussione interiore che, tra una lettera sminuzzata in minutissimi frammenti rigorosamente inceneriti nel camino casalingo e un pianto prima volontariamente e inconsciamente autogenerato ascoltando proprio quella canzone lì e poi soffocato per mantenere ai miei occhi già umidicci un minimo di dignità, concepii in un lampo di genio il progetto che avrebbe potuto restituirmi la felicità prima conquistata e poi indebitamente sottrattami.
Pensai che lei mi aveva conosciuto poco prima di legarsi a me, e – reputando impossibile che fosse stata affascinata dal mio modesto aspetto fisico o dal mio a tratti insopportabile modo di rapportarmi agli altri – conclusi che quel suo cedimento interiore fosse stato provocato dalla mia moderata (ma a tratti ben millantata) cultura. E che, se questo era avvenuto una volta, non c'era motivo per cui non si sarebbe potuto ripetere.
Aiutato nel mio folle e ragionatissimo progetto da un ottimismo da cartone Disney e da qualche parola confortevole di un paio di filosofi deterministi riletti in chiave adolescenzial-personale, cominciai a sfogliare i miei libri in cerca di evidenziate citazioni da ricopiare su anonimi fogliettini di carta colorati, successivamente depositabili a scuola, nel suo giubbotto.
Uno al giorno, metodicamente, con il garbo dell'uomo esperto, con la sensualità della minuzia, attento a non ripetere le frasi che avevo già riciclato nel mio primo approccio alla seduzione.

Ne preparai quattro, sfogliando ardentemente le pagine ancora troppo bianche per avere la pretesa di definirsi davvero studiate.
Scelsi, per incominciare, un'elegia di Tibullo.
“Che gioia, coricato, ascoltare i venti che infuriano,
e stringersi teneramente la propria donna al petto,
o, quando lo scirocco invernale avrà versato la gelida pioggia,
immergersi senza pensieri nel sonno al ticchettio delle gocce!”.

Perchè facevamo il Liceo Classico, perchè ancora non l'avevo studiato, perchè bisognava in qualche modo omaggiare la nostra comune educazione. Perchè – e non era un dettaglio da poco – nella stessa elegia, solo dieci versi più tardi, compariva un
“Della gloria non so cosa farmi, o mia Delia; pur di restare
con te – va bene! - mi chiamino pure ozioso e indolente.
Su te si posi il mio sguardo, quando sarà per me venuta
l'ultima ora.”
che avrebbe potuto concludere con un ideale cerchio il mio percorso, e che mi avrebbe finalmente rivelato come il misterioso spasimante.
Preso un cartoncino dello stesso colore, scrissi in una bella grafia non troppo riconoscibile anche quei due distici e lo riposi in un luogo sicuro.

Aggiunsi poi alla mia (nostra, nostra!) personale collezione la frase di Turgenev che Dostoevskij riporta nella prima pagina delle Notti Bianche
“Fu forse creato per rimanere vicino al tuo cuore, sia pure per un attimo?”
e – visto che essere troppo originali rischiava di essere controproducente – anche un verso di De Andrè, quel “continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?” che tanti pomeriggi di distratto studio aveva allietato.

Soddisfatto, conclusi la mia opera e mi gettai con ritrovata tranquillità tra le pagine del libro di storia.
La serenità della notte (la prima notte serena da non so più quante settimane!) lasciò il posto ad una classica mattina autunnale di vento e pioggia.
Aspettai, da bravo ragazzo ligio alle regole d'istituto, tutta la prima ora, con il cuore in mano, per poi finalmente chiedere all'insegnante di lettere di uscire, il mio meraviglioso biglietto nella tasca della felpa.
Salii i tre piani che mi separavano dalla classe della mia prima ragazza, evitando con cura il contatto visivo di qualunque essere umano mi passasse vicino, e raggiunsi l'argentato attaccapanni che custodiva la cassetta di sicurezza delle nostre parole.

Tre mesi è un periodo piuttosto breve, nel lungo corso del tempo, ma immaginavo fosse sufficiente per distinguere un suo prezioso indumento da quello di tutti gli altri. Purtroppo, mi sbagliavo.
Provai ad andare per esclusione, cercando disperatamente di ricordare – se non il modello – almeno il colore. Nulla, vuoto.
Stordito dalla mia inconcludenza, angosciato dalla mia disattenzione, incredulo di come si possa guardare estasiati una persona senza per questo vederla, e soprattutto preoccupato dall'effetto che una mia prolungata assenza dalla classe avrebbe potuto avere sul mio iter studiorum, tornai - abbattuto ma un po' più consapevole - in classe, le pive nel proverbiale sacco, il povero Tibullo stretto nelle mani sudaticce.

11 dicembre 2011

Le cose che avrei voluto dire da parecchio, più o meno nel modo in cui avrei voluto dirle da parecchio

Dopo aver militato per un anno e mezzo - con impegno e partecipazione minori di quanto sarebbe stato necessario - qui a Campobasso, è da qualche mese che mi trovo in una realtà con ogni probabilità oggettivamente migliore di quella in cui ho vissuto nella mia adolescenza e che voi con il vostro impegno vorreste cercate di migliorare, ma sicuramente non esente da problemi.
Pisa è diversa da Campobasso, come diverso è l'ambiente universitario da quello liceale, forse più chiuso ma – anche per questo – più raccolto e familiare.
E' interessante (e in una certa misura persino confortante) vedere che le rivendicazioni siano qui e lì – in buona parte – le stesse. Le proteste per i disservizi, l'indignazione per la mancanza di quei provvedimenti che persino il vecchio, caro, borghese buon senso raccomanderebbe (penso alla situazione dell'edilizia qui in Molise o ai disastrosi orari e calendari accademici pisani), la volontà di rendere più simile a noi il clima culturale che si respira, la ribellione contro un sistema che hanno fatto di tutto per rendere quanto più possibile avulso e ostile a noi, una generazione per cui non esiste nemmeno più una consonante.
E' contro questo sistema che vedo muovere la rabbia di tutti noi, di certo ben motivata ma spesso – purtroppo dobbiamo riconoscerlo - non altrettanto ben veicolata. Anche le campagne nazionali contro la crisi, a cui va sicuramente il merito di aver aiutato molti di noi a dare una forma attiva alle proprie richieste, hanno nello stesso tempo appiattito i nostri pensieri su posizioni che spesso non possiamo far altro che appoggiare fideisticamente, non essendo tutti nella possibilità di acquisire i mezzi e le conoscenze necessari per comprendere l'immensità dei fenomeni che stanno accadendo intorno a noi.
Sono certo – tuttavia – che, anche se le cause del disastro in cui viviamo sono per lo più ignote a molti di noi, è sicuramente chiaro a tutti uno dei suoi risultati: la diminuzione del peso dei movimenti, delle associazioni e persino di realtà più organizzate (i sindacati e – da qualche settimana - persino i partiti) all'interno di questa società. L'impossibilità di ottenere risultati concreti e la frustrazione che ne deriva sono oggi più che mai all'ordine del giorno per chiunque cerchi di impegnarsi per quelli che sente siano gli interessi della collettività.
Eppure, qui e ora, voi state ponendo le basi di un cambiamento. Proprio perchè gli spazi di manovra sulla realtà sono minori, la presenza di persone provenienti da realtà diverse e riunite qui a dire la propria è il primo passo necessario per una diversificazione delle istanze che è non solo auspicabile, ma imprescindibile e necessaria.
Pur nell'unità di intenti che deve contraddistinguere un'associazione, andare a stanare una per una le situazioni risolvibili per incidere nettamente sulla quotidianità è l'obiettivo che dobbiamo perseguire. E per farlo, è necessaria una presenza qualitativamente e quantitativamente più ampia rispetto a quella che abbiamo avuto finora, più attiva sul territorio, senza che nasca in noi la paura e il fastidio di occuparsi di cose oggettivamente piccole, di certo meno affascinanti dei grandi ideali che nutriamo nei nostri animi ardenti, ma più concrete.
L'esempio della mobilitazione dei ragazzi del Liceo Classico di Campobasso, in cui la presenza materiale di una classe è stata salvata anche grazie alle voci di quanti hanno avvertito l'ingiustizia di quello che stava accadendo, è un punto di partenza importante.
E poi, c'è un imperativo che dobbiamo avere: essere belli.
La bellezza è un valore che dà significato a quello che facciamo, abbattendo e trascinando, con la sua forza dirompente, l'inerzia. Proprio perchè gli obiettivi che ci prefiggiamo sono ora più difficili da ottenere, abbiamo l'imperativo persino morale di coinvolgere quanti più soggetti possibile, andando a suscitare e rinnovare la rabbia, le idee e la spontaneità di tutti.
In ambienti più vicini a quella che ora è la mia realtà, la chiamano estetica del conflitto. Io, che per la limitatezza del mio orizzonte culturale sono più moderato, voglio definirla estetica del dissenso.
Siate creativi, siate spontanei, siate accattivanti. Fate parlare di voi e raccogliete simpatia.
Sono stanco, personalmente, dei soliti discorsi sul nostro grigiore, sulle nostre manifestazioni sempre uguali, sulle nostre bandiere ormai logore. Abbiamo bisogno, per inseguire il nostro sogno, di rinnovare le nostre logiche e – perchè no? - i nostri riferimenti, non rinunciando mai all'espressione della nostra identità ma senza per questo sentire la necessità di arroccarci a difesa delle gabbie che ci siamo costruiti solo per avere la possibilità di decorarle con qualche foto del Che o la copertina del primo disco di Cisco.
Sorridete. Se vi chiedono di spiegare le vostre ragioni – amici, insegnanti o genitori - spiegatele, ricordando com'è fatta la comunicazione, usando la parola in maniera così efficace da modificare i pensieri. E poi ancora, di nuovo, fino a slogarvi le mascelle, sorridete. Divertitevi.
Dimostrate di essere consapevoli di quello che fate, e di saperlo fare in un modo interessante. I risultati, per quanto piccoli, arriveranno.

7 dicembre 2011

Concedimi, babbo

Poi un giorno torni a casa, e sali sul treno e sai benissimo che ormai il treno è diventato uno di quei luoghi in cui è perfino banale avere una piccola esperienza carina.
Ti siedi di fronte a un signore sulla quarantina. Alto, probabilmente arabo, felpa bianca, un lettore mp3 molto vecchio e delle scarpe rotte.
E non ti saluta quando lo saluti, però ti sorride e allora capisci che non è colpa sua, che magari è stanco e non gli va di sforzarsi a parlare in una lingua che non è la sua.
Lui si alza poco prima che passi il controllore, con un tempismo perfetto, e comprendi in un attimo – ed è una certezza che nessuna prova potrebbe incrinare – che si è alzato perchè non ha il biglietto, e che deve arrivare necessariamente a Roma, e tifi tanto perchè non sia beccato.
Ti metti a leggere, allora, e andrebbe anche bene così se improvvisamente lui non tornasse, e subito accendesse il suo vecchio lettore mp3, cominciando ad ascoltare qualcosa che avresti tanta, tantissima voglia di sapere cosa sia, un po' per come picchietta gentilmente - con garbo quasi anglosassone - la mano sinistra sul tavolino e un po' per il suo sguardo sinceramente perso in qualcosa di decisamente più bello di un viaggio in treno con l'ansia che il controllore ti possa beccare.
Ti viene in mente di cominciare a scriverne, con la vaga e timorosa speranza che lui si interessi a te (nonostante la sua molto più interessante vita), che legga dal riflesso del finestrino quello che stai scrivendo, che ti sorrida di nuovo, che ti parli in un pessimo inglese di dove abbia imparato a suonare il piano e del pezzo che stava ascoltando. E che magari te lo faccia anche sentire, quel pezzo.
Certo, sai benissimo che non succederà, anche perchè intanto hai smesso di interessarti a lui per mettere giù le parole in un ordine che ti sembri decente, e questo rende ancora meno interessante la tua già non eccessivamente interessante compagnia, e lui è uno che sembra dire “interessante” molto spesso, nella sua ignota lingua.
E poi scende, anche prima di Roma. Probabilmente perchè sa che il controllore potrebbe passare di nuovo, perchè un regionale è più sicuro di un frecciabianca.
E alla fine ti guardi intorno, e non c'è più, e pensi una cosa molto banale: che alla fine i luoghi comuni prima di essere luoghi comuni sono delle tenui verità, che in treno si possono davvero avere molto facilmente delle piccole esperienze carine.
E che se Callimaco avesse avuto una tratta Cirene-Alessandria, altrochè Inno ad Artemide.