Quando la mia prima ragazza mi lasciò, passai (capita a tutti) attraverso il tipico periodo di acceso dibattito interiore tra una ragione che mi incitava a lasciar perdere la questione e a concentrarmi in altro e una parte dell'intelletto - più o meno profonda di quella, non si è mai abbastanza bravi in queste cose per poterlo affermare con certezza - che non si dava pace, agitandosi vorticosamente tra i due opposti poli del sentimento e dell'odio.
Inutile dire che la ragione ben poco poteva contro quella forza. Altrettanto inutile affermare che nessuno avrebbe potuto distogliermi da quel conflitto.
Fu in uno di quei pomeriggi di discussione interiore che, tra una lettera sminuzzata in minutissimi frammenti rigorosamente inceneriti nel camino casalingo e un pianto prima volontariamente e inconsciamente autogenerato ascoltando proprio quella canzone lì e poi soffocato per mantenere ai miei occhi già umidicci un minimo di dignità, concepii in un lampo di genio il progetto che avrebbe potuto restituirmi la felicità prima conquistata e poi indebitamente sottrattami.
Pensai che lei mi aveva conosciuto poco prima di legarsi a me, e – reputando impossibile che fosse stata affascinata dal mio modesto aspetto fisico o dal mio a tratti insopportabile modo di rapportarmi agli altri – conclusi che quel suo cedimento interiore fosse stato provocato dalla mia moderata (ma a tratti ben millantata) cultura. E che, se questo era avvenuto una volta, non c'era motivo per cui non si sarebbe potuto ripetere.
Aiutato nel mio folle e ragionatissimo progetto da un ottimismo da cartone Disney e da qualche parola confortevole di un paio di filosofi deterministi riletti in chiave adolescenzial-personale, cominciai a sfogliare i miei libri in cerca di evidenziate citazioni da ricopiare su anonimi fogliettini di carta colorati, successivamente depositabili a scuola, nel suo giubbotto.
Uno al giorno, metodicamente, con il garbo dell'uomo esperto, con la sensualità della minuzia, attento a non ripetere le frasi che avevo già riciclato nel mio primo approccio alla seduzione.
Ne preparai quattro, sfogliando ardentemente le pagine ancora troppo bianche per avere la pretesa di definirsi davvero studiate.
Scelsi, per incominciare, un'elegia di Tibullo.
“Che gioia, coricato, ascoltare i venti che infuriano,
e stringersi teneramente la propria donna al petto,
o, quando lo scirocco invernale avrà versato la gelida pioggia,
immergersi senza pensieri nel sonno al ticchettio delle gocce!”.
Perchè facevamo il Liceo Classico, perchè ancora non l'avevo studiato, perchè bisognava in qualche modo omaggiare la nostra comune educazione. Perchè – e non era un dettaglio da poco – nella stessa elegia, solo dieci versi più tardi, compariva un
“Della gloria non so cosa farmi, o mia Delia; pur di restare
con te – va bene! - mi chiamino pure ozioso e indolente.
Su te si posi il mio sguardo, quando sarà per me venuta
l'ultima ora.”
che avrebbe potuto concludere con un ideale cerchio il mio percorso, e che mi avrebbe finalmente rivelato come il misterioso spasimante.
Preso un cartoncino dello stesso colore, scrissi in una bella grafia non troppo riconoscibile anche quei due distici e lo riposi in un luogo sicuro.
Aggiunsi poi alla mia (nostra, nostra!) personale collezione la frase di Turgenev che Dostoevskij riporta nella prima pagina delle Notti Bianche
“Fu forse creato per rimanere vicino al tuo cuore, sia pure per un attimo?”
e – visto che essere troppo originali rischiava di essere controproducente – anche un verso di De Andrè, quel “continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?” che tanti pomeriggi di distratto studio aveva allietato.
Soddisfatto, conclusi la mia opera e mi gettai con ritrovata tranquillità tra le pagine del libro di storia.
La serenità della notte (la prima notte serena da non so più quante settimane!) lasciò il posto ad una classica mattina autunnale di vento e pioggia.
Aspettai, da bravo ragazzo ligio alle regole d'istituto, tutta la prima ora, con il cuore in mano, per poi finalmente chiedere all'insegnante di lettere di uscire, il mio meraviglioso biglietto nella tasca della felpa.
Salii i tre piani che mi separavano dalla classe della mia prima ragazza, evitando con cura il contatto visivo di qualunque essere umano mi passasse vicino, e raggiunsi l'argentato attaccapanni che custodiva la cassetta di sicurezza delle nostre parole.
Tre mesi è un periodo piuttosto breve, nel lungo corso del tempo, ma immaginavo fosse sufficiente per distinguere un suo prezioso indumento da quello di tutti gli altri. Purtroppo, mi sbagliavo.
Provai ad andare per esclusione, cercando disperatamente di ricordare – se non il modello – almeno il colore. Nulla, vuoto.
Stordito dalla mia inconcludenza, angosciato dalla mia disattenzione, incredulo di come si possa guardare estasiati una persona senza per questo vederla, e soprattutto preoccupato dall'effetto che una mia prolungata assenza dalla classe avrebbe potuto avere sul mio iter studiorum, tornai - abbattuto ma un po' più consapevole - in classe, le pive nel proverbiale sacco, il povero Tibullo stretto nelle mani sudaticce.
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13 dicembre 2011
9 agosto 2011
Dietro al vetro d'un bicchiere
Era benessere, quel che provava.
Foto e immagini consuete alla sua sinistra, un affresco piuttosto approssimativo oltre la mano con cui sfogliava le pagine, un libro, e il cellulare.
Sorseggiava con insolito candore l'assenzio appena messo sul conto, cercando goffamente di riprodurre agli occhi dei suoi modesti simili l'aria anonima e smarrita di quegli avventori variamente riprodotti nei quadri che avevano riempito la sua adolescenza.
Leggeva, avvolto nelle rilucenti tenebre della sua solitudine, un volume trovato in quel luogo fin troppo familiare, senza curarsi dello squallore regnante intorno a lui, senza voler dare a intendere la propria, intima, abiezione. Perso nelle pagine di quel Seneca consumato, il cui giallore sembrava rivelare la sorpresa di essere finito proprio lì, sugli scaffali di una bettola di periferia, tra un fumetto di Rat-Man e una biografia di Tom Jones.
Cullava quei fogli accartocciati, li sfogliava con cura, come a voler ridare loro dignità. Ne assorbiva ogni lettera sbiadita, lasciandosi accarezzare dalla musicalità dissonante della prosa, quel susseguirsi di frasi nominali e improvvise esclamazioni che tanto, troppo, gli sembravano in contrasto con la rigorosa sistematicità del pensiero stoico.
Le orecchie rivolte alla melodia dei Led Zeppelin offerta dalla casa (non il massimo dell'atmosfera, ma non si può certo aver tutto), si distaccò dall'armonia artificiosa dei suoi pensieri appena vide i capelli lunghi del proprietario del locale inserire una moneta in una macchina che fino ad allora non aveva neppure notato.
Non potè fare a meno di notarlo prendere tre freccette da una scatoletta. Freccette che - nella sua fantasia alcolica - gli apparivano dardi sconclusionati, stanchi simulacri di antiche armi, giocose riproduzioni di morte.
Lo ammirò riprodursi in movimenti flessuosi, perfettamente coordinati, prodotti di ataviche abitudini, di allenamenti quotidiani in una solitudine forse non più feconda della sua, ma
sicuramente più affascinante.
L'armonia simbolica di quei gesti, di quel tanto rapido quanto calcolato distendersi del braccio destro, lo distolse dalla concettosità senecana, rivelandone limiti e difetti, trascinandolo nel vortice dell'estasi estetica, trasmettibile - lo sapeva già da tempo - dalle più sottili piccolezze.
Quasi in contemplazione, ormai, muto come muto è lo stupore, lo osservò chiudere la partita.
L'aria contratta del suo volto nello scagliare l'ultima freccia, la distensione dei suoi lineamenti nel veder compiuta la sua minuta opera d'arte quotidiana, la soddisfazione dipinta sulle sue labbra nello spegnere il quadro.
"E' solo esercizio", disse, quasi tentando di giustificarsi.
"Che contro le passioni si deve combattere d'impeto, non di sottigliezza, e volgerle in fuga non con piccoli colpi ma con un assalto frontale."
"E' solo esercizio...", lo udì ripetere.
Foto e immagini consuete alla sua sinistra, un affresco piuttosto approssimativo oltre la mano con cui sfogliava le pagine, un libro, e il cellulare.
Sorseggiava con insolito candore l'assenzio appena messo sul conto, cercando goffamente di riprodurre agli occhi dei suoi modesti simili l'aria anonima e smarrita di quegli avventori variamente riprodotti nei quadri che avevano riempito la sua adolescenza.
Leggeva, avvolto nelle rilucenti tenebre della sua solitudine, un volume trovato in quel luogo fin troppo familiare, senza curarsi dello squallore regnante intorno a lui, senza voler dare a intendere la propria, intima, abiezione. Perso nelle pagine di quel Seneca consumato, il cui giallore sembrava rivelare la sorpresa di essere finito proprio lì, sugli scaffali di una bettola di periferia, tra un fumetto di Rat-Man e una biografia di Tom Jones.
Cullava quei fogli accartocciati, li sfogliava con cura, come a voler ridare loro dignità. Ne assorbiva ogni lettera sbiadita, lasciandosi accarezzare dalla musicalità dissonante della prosa, quel susseguirsi di frasi nominali e improvvise esclamazioni che tanto, troppo, gli sembravano in contrasto con la rigorosa sistematicità del pensiero stoico.
Le orecchie rivolte alla melodia dei Led Zeppelin offerta dalla casa (non il massimo dell'atmosfera, ma non si può certo aver tutto), si distaccò dall'armonia artificiosa dei suoi pensieri appena vide i capelli lunghi del proprietario del locale inserire una moneta in una macchina che fino ad allora non aveva neppure notato.
Non potè fare a meno di notarlo prendere tre freccette da una scatoletta. Freccette che - nella sua fantasia alcolica - gli apparivano dardi sconclusionati, stanchi simulacri di antiche armi, giocose riproduzioni di morte.
Lo ammirò riprodursi in movimenti flessuosi, perfettamente coordinati, prodotti di ataviche abitudini, di allenamenti quotidiani in una solitudine forse non più feconda della sua, ma
sicuramente più affascinante.
L'armonia simbolica di quei gesti, di quel tanto rapido quanto calcolato distendersi del braccio destro, lo distolse dalla concettosità senecana, rivelandone limiti e difetti, trascinandolo nel vortice dell'estasi estetica, trasmettibile - lo sapeva già da tempo - dalle più sottili piccolezze.
Quasi in contemplazione, ormai, muto come muto è lo stupore, lo osservò chiudere la partita.
L'aria contratta del suo volto nello scagliare l'ultima freccia, la distensione dei suoi lineamenti nel veder compiuta la sua minuta opera d'arte quotidiana, la soddisfazione dipinta sulle sue labbra nello spegnere il quadro.
"E' solo esercizio", disse, quasi tentando di giustificarsi.
"Che contro le passioni si deve combattere d'impeto, non di sottigliezza, e volgerle in fuga non con piccoli colpi ma con un assalto frontale."
"E' solo esercizio...", lo udì ripetere.
2 agosto 2011
La gocciola che cade
Trovare conforto nella vaghezza del futuro per fuggire dalla propria esistenza. Dare una data, tracciare una linea sull’orizzonte dell’avvenire, sicuri che da quel preciso momento in poi il patire avrebbe finito una volta per tutte di trovare ragion d’essere.
In quell’istante, le membra avvolte in un gentile asciugamano, la sua linea era quella vasca.
Gustava già il bollore dell’acqua sul suo corpo inerme, nudo e gelido, l’attimo in cui la sua mente sarebbe stata completamente assorbita da quel delimitato e inoffensivo fuoco liquido, dove immergersi nell’atemporalità della perdizione.
Cercava di non seguire il solito iter della paura, tipicamente umano: prima i piedi, poi – dolcemente - le ginocchia, quindi il resto del flebile corpo. Non voleva abituarsi, ma divenire con un solo atto di iniziazione un tutt’uno con quell’acqua.
Era quindi solita gettarsi più rapidamente possibile. Tuffarsi, quasi, nonostante l’altezza della vasca non superasse i 60 centimetri.
Trasformare improvvisamente la sua essenza. Non come prodotto di una qualsivoglia azione, ma semplicemente identificando se stessa con quell’immanente calore, assolutamente provvisorio eppur sempre vivente e ricreabile.
Era minimo, il dolore che sentiva, rispetto alla delusione che – lo sapeva - sarebbe scaturita dagli istanti immediatamente successivi.
“Il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco”, aveva letto in un passo che le aveva riportato alla mente questo suo rito quotidiano.
Corpo e animo si sarebbero abituati, estinta la vampa.
Una sensazione di minaccioso languore si sarebbe impadronita delle sue membra solo momentaneamente reattive, il tepore dell’abitudine avrebbe corroso quella mente che tutto aveva visto, che tutto aveva conosciuto, nella purificazione del bruciore.
C’era qualcosa di genetico, forse, in quell’avversione. Come nei secoli passati il putridume delle acque soleva portare epidemie, così avvertiva che quella brodaglia di se stessa nella quale sarebbe stata avvolta per la successiva mezz’ora l’avrebbe per l’ennesima volta infettata.
Già si vedeva sfogliare stancamente la rivista, cercando di bagnarla il meno possibile.
Già immaginava la schiuma afflosciarsi al tocco involontario delle sue dita, rivelando l’innaturale grigiore di quel fluido ormai innominabile.
Si ammirava chiudere gli occhi nell’atto di affogare tutto il corpo in apnea, ascoltando il ritmo naturalmente irregolare del suo cuore, avvertendo lo sporco invaderle i capelli.
Se era davvero simile a quello, lo stato fetale, doveva smettere di pentirsi di esser nata.
Si spogliò finalmente di ogni indumento, rivelando l’inconsistenza delle sue forme. Infilò il dito medio per controllare che la temperatura non fosse già scesa troppo, tanto da non toglierle almeno quel bagliore di infinito, e sprofondò.
In quell’istante, le membra avvolte in un gentile asciugamano, la sua linea era quella vasca.
Gustava già il bollore dell’acqua sul suo corpo inerme, nudo e gelido, l’attimo in cui la sua mente sarebbe stata completamente assorbita da quel delimitato e inoffensivo fuoco liquido, dove immergersi nell’atemporalità della perdizione.
Cercava di non seguire il solito iter della paura, tipicamente umano: prima i piedi, poi – dolcemente - le ginocchia, quindi il resto del flebile corpo. Non voleva abituarsi, ma divenire con un solo atto di iniziazione un tutt’uno con quell’acqua.
Era quindi solita gettarsi più rapidamente possibile. Tuffarsi, quasi, nonostante l’altezza della vasca non superasse i 60 centimetri.
Trasformare improvvisamente la sua essenza. Non come prodotto di una qualsivoglia azione, ma semplicemente identificando se stessa con quell’immanente calore, assolutamente provvisorio eppur sempre vivente e ricreabile.
Era minimo, il dolore che sentiva, rispetto alla delusione che – lo sapeva - sarebbe scaturita dagli istanti immediatamente successivi.
“Il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco”, aveva letto in un passo che le aveva riportato alla mente questo suo rito quotidiano.
Corpo e animo si sarebbero abituati, estinta la vampa.
Una sensazione di minaccioso languore si sarebbe impadronita delle sue membra solo momentaneamente reattive, il tepore dell’abitudine avrebbe corroso quella mente che tutto aveva visto, che tutto aveva conosciuto, nella purificazione del bruciore.
C’era qualcosa di genetico, forse, in quell’avversione. Come nei secoli passati il putridume delle acque soleva portare epidemie, così avvertiva che quella brodaglia di se stessa nella quale sarebbe stata avvolta per la successiva mezz’ora l’avrebbe per l’ennesima volta infettata.
Già si vedeva sfogliare stancamente la rivista, cercando di bagnarla il meno possibile.
Già immaginava la schiuma afflosciarsi al tocco involontario delle sue dita, rivelando l’innaturale grigiore di quel fluido ormai innominabile.
Si ammirava chiudere gli occhi nell’atto di affogare tutto il corpo in apnea, ascoltando il ritmo naturalmente irregolare del suo cuore, avvertendo lo sporco invaderle i capelli.
Se era davvero simile a quello, lo stato fetale, doveva smettere di pentirsi di esser nata.
Si spogliò finalmente di ogni indumento, rivelando l’inconsistenza delle sue forme. Infilò il dito medio per controllare che la temperatura non fosse già scesa troppo, tanto da non toglierle almeno quel bagliore di infinito, e sprofondò.
28 luglio 2011
Instead of a shell
"E ora come lo scrivi, questo pezzo?"
"Non so se ho davvero voglia di scriverlo, sai?"
"Tanto chi lo legge?"
"No, infatti. Nessuno. Quella decina di scemi che passa ogni giorno."
"Tanto lo sai che è solo per te, se ogni tanto lo fai."
"Sì. Però, vedi, è dura stavolta."
"Niente materiale per il raccontino, eh? Ti manca il contesto."
"E poi sarebbe troppo lungo, scritto con la solita prosa volutamente artificiosa."
"Ributtarsi sull'adolescenziale stretto? Quello stile da "provo a farti sorridere di me, sperando di essere preso almeno un po' sul serio"? Magari con qualche anafora. Con qualche 'noi' a inizio periodo sparso qua e là."
"Eh, ma infatti l'argomento è tornato di nuovo a essere quella roba lì: la scelta tra felicità e complessità, risolta in favore della seconda. Complessità di cui farmi un vanto, salvo poi volermene distaccare nelle mie povere e schematiche sublimazioni di esistenza. Comunque posso parlare in prima o in terza persona, al singolare o al plurale, ma di me starei parlando, come sempre."
"Adolescenziale."
"Meno che crearsi un interlocutore fasullo per poi esprimere in qualche modo quei contenuti, credo."
"Almeno c'è dietro un riferimento colto."
"Possiamo essere tardo-adolescenti più acculturati, tardo-adolescenti un po' meno frustrati, perfino tardo-adolescenti affermati. Ma sempre tardo-adolescenti rimaniamo."
"Parla di futuro, su. E' lì che volevi arrivare, secondo me."
"No, alla fine no. Ormai ho deciso che mangiare yogurt su un prato aspettando il sussidio di disoccupazione sia più appagante che possedere tre villini se si può acquistare un minimo di consapevolezza. Ed è un concetto tanto banale che nemmeno vale la pena di esprimerlo nuovamente."
"L'hai..."
"Zitto."
"E poi finisci per riporre fiducia in un avvenire da cui ti allontani volutamente, cambiando opinione a ogni minuto."
"E' vero, è assolutamente vero. Però, sul serio, per una volta ero concentrato sul presente."
"Esprimiti, forza."
"E' che abbiamo fatto un mestiere, del tendere verso altro. Una ragione di vita, un esercizio quotidiano.
E' l'immaginazione l'unica facoltà che ci rimane, stesi sul letto ad ascoltare gruppi di venti o trent'anni fa, convinti che quegli accenni di febbre mentale che derivano dall'ascolto ripetuto e spasmodico di This charming man siano segno di vivacità intellettuale, piuttosto che sintomi di una malattia dello spirito da cui non riusciamo a liberarci in alcun modo.
E' la fantasia la strada che ci permette di vedere in Nietzsche un modello comportamentale in cui credere autenticamente, mentre leggiamo di oltreuomo nel pigiamone di flanella compratoci da una madre che - povera - non ha poi così tanti motivi per essere bistrattata.
Sono le nostre chimere le uniche vie che ci portano a credere in noi, quando cerchiamo di 'comporre qualche bel verso che provi a noi stessi che non siamo gli ultimi degli uomini, che non siamo inferiori a quelli che disprezziamo', mentre - scrivendo - finiamo per citare Baudelaire."
"Eppure non devi trovarti così male, se indulgi così tanto in quelle 'chimere'."
"No, e forse non è davvero male. La più anarchica delle idee è l'idea sull'idea, il più sregolato degli studi è lo studio dello studio, il più produttivo dei pensieri è il pensiero sul pensiero, e debilitarsi a tal punto in questa continua analisi dell'analisi dell'analisi dell'analisi dell'autoanalisi riesce a trascinare in uno stato di stanchezza e nausea così esistenzialmente totalizzante da poter essere trovato perfino interessante."
"Sperando di..."
"Aspirando ad una sorta di paralizzante incoscienza da cui però, nel momento in cui arriva, sono terrorizzato, ricercando subito una parvenza di reintegrazione nei canoni stabiliti."
"E quindi... Era questo che volevi dire, in definitiva?"
"Sì, più o meno. C'era solo un'ultima frase, sull'inevitabile tendenza di sprecare tempo nell'implorarmi di non perderne."
"Capito."
"Pubblica post, dai."
"Non so se ho davvero voglia di scriverlo, sai?"
"Tanto chi lo legge?"
"No, infatti. Nessuno. Quella decina di scemi che passa ogni giorno."
"Tanto lo sai che è solo per te, se ogni tanto lo fai."
"Sì. Però, vedi, è dura stavolta."
"Niente materiale per il raccontino, eh? Ti manca il contesto."
"E poi sarebbe troppo lungo, scritto con la solita prosa volutamente artificiosa."
"Ributtarsi sull'adolescenziale stretto? Quello stile da "provo a farti sorridere di me, sperando di essere preso almeno un po' sul serio"? Magari con qualche anafora. Con qualche 'noi' a inizio periodo sparso qua e là."
"Eh, ma infatti l'argomento è tornato di nuovo a essere quella roba lì: la scelta tra felicità e complessità, risolta in favore della seconda. Complessità di cui farmi un vanto, salvo poi volermene distaccare nelle mie povere e schematiche sublimazioni di esistenza. Comunque posso parlare in prima o in terza persona, al singolare o al plurale, ma di me starei parlando, come sempre."
"Adolescenziale."
"Meno che crearsi un interlocutore fasullo per poi esprimere in qualche modo quei contenuti, credo."
"Almeno c'è dietro un riferimento colto."
"Possiamo essere tardo-adolescenti più acculturati, tardo-adolescenti un po' meno frustrati, perfino tardo-adolescenti affermati. Ma sempre tardo-adolescenti rimaniamo."
"Parla di futuro, su. E' lì che volevi arrivare, secondo me."
"No, alla fine no. Ormai ho deciso che mangiare yogurt su un prato aspettando il sussidio di disoccupazione sia più appagante che possedere tre villini se si può acquistare un minimo di consapevolezza. Ed è un concetto tanto banale che nemmeno vale la pena di esprimerlo nuovamente."
"L'hai..."
"Zitto."
"E poi finisci per riporre fiducia in un avvenire da cui ti allontani volutamente, cambiando opinione a ogni minuto."
"E' vero, è assolutamente vero. Però, sul serio, per una volta ero concentrato sul presente."
"Esprimiti, forza."
"E' che abbiamo fatto un mestiere, del tendere verso altro. Una ragione di vita, un esercizio quotidiano.
E' l'immaginazione l'unica facoltà che ci rimane, stesi sul letto ad ascoltare gruppi di venti o trent'anni fa, convinti che quegli accenni di febbre mentale che derivano dall'ascolto ripetuto e spasmodico di This charming man siano segno di vivacità intellettuale, piuttosto che sintomi di una malattia dello spirito da cui non riusciamo a liberarci in alcun modo.
E' la fantasia la strada che ci permette di vedere in Nietzsche un modello comportamentale in cui credere autenticamente, mentre leggiamo di oltreuomo nel pigiamone di flanella compratoci da una madre che - povera - non ha poi così tanti motivi per essere bistrattata.
Sono le nostre chimere le uniche vie che ci portano a credere in noi, quando cerchiamo di 'comporre qualche bel verso che provi a noi stessi che non siamo gli ultimi degli uomini, che non siamo inferiori a quelli che disprezziamo', mentre - scrivendo - finiamo per citare Baudelaire."
"Eppure non devi trovarti così male, se indulgi così tanto in quelle 'chimere'."
"No, e forse non è davvero male. La più anarchica delle idee è l'idea sull'idea, il più sregolato degli studi è lo studio dello studio, il più produttivo dei pensieri è il pensiero sul pensiero, e debilitarsi a tal punto in questa continua analisi dell'analisi dell'analisi dell'analisi dell'autoanalisi riesce a trascinare in uno stato di stanchezza e nausea così esistenzialmente totalizzante da poter essere trovato perfino interessante."
"Sperando di..."
"Aspirando ad una sorta di paralizzante incoscienza da cui però, nel momento in cui arriva, sono terrorizzato, ricercando subito una parvenza di reintegrazione nei canoni stabiliti."
"E quindi... Era questo che volevi dire, in definitiva?"
"Sì, più o meno. C'era solo un'ultima frase, sull'inevitabile tendenza di sprecare tempo nell'implorarmi di non perderne."
"Capito."
"Pubblica post, dai."
21 luglio 2011
Per le delizie, Lisaveta
Vedeva poco, dal finestrino. Il bar di quel terminal di periferia in cui arrivava per la prima volta, un tratto di asfalto nero, leggermente inumidito dalle piogge di quei due primi giorni di viaggio, persone accompagnate dai loro più o meno ingenti bagagli.
Nella cuffia destra un pezzo di Wagner, a dargli l'impressione di maestà di cui aveva bisogno, per la continuazione di quel percorso di sfida a se stesso, di allontanamento da quel che chiamava, con un punta di sprezzante e incongrua genericità, "altro". Come la vecchietta seduta accanto a lui, appena salita, settimana enigmistica in mano, pesante valigia sulle nude ginocchia, che parlava con cadenzato candore dei suoi tre tesori, della città nuova che l'aspettava, del ritorno così lontano, di lì a tre mesi.
Tornò a guardare, fuori dal finestrino, la pioggia che cadeva sugli ombrelli di tre impiegati della compagnia. Tre autisti, forse, o bigliettai. Di età diverse, si scambiavano un giornale sportivo e giocose battute, a quanto si poteva capire dai muti movimenti dei loro corpi ben pasciuti.
Come affascinato dalla spontaneità del loro incedere, dalla naturalezza dei loro gesti, dalla calma gioiosità del loro essere, chiese scusa alla signora e si mise a seguire il loro labiale.
Sembravano discorrere di un tipo, salito quella stessa mattina sul "mezzo" di uno dei tre, che continuava a chiedere con insistenza gli orari per il ritorno, perorando la sua causa con esempi di amici rimasti a piedi per errori altrui.
Colui che parlava, issatosi ormai sul trono di re e conduttore della conversazione, orgoglioso intrattenitore, imitava la sua "parlata" abruzzese, gesticolava con vibrante maestria la sua petulante insistenza, suscitando istante dopo istante sorrisi di comprensione, furente indignazione, mordaci risa di scherno.
Continuò ancora a bearsi di quello spettacolo, travolto dal fascino dissonante che aveva su di lui quella schietta normalità, quell'aperta e verace allegria, alla quale non si sentiva in grado di partecipare - chiuso nel suo mondo di pudica e candida immaterialità, devastato nel profondo dalla sua catena di riferimenti, inasprito dal disprezzo derivante dall'illusorietà delle sue conoscenze - ma che lui - lui scarto, lui inetto, lui distratto, distrutto e distruttore, lui, rifiuto della società che rifiutava - non poteva fare a meno di ammirare segretamente.
Fece tacere il Tannhauser, salutò distrattamente la signora e i suoi mai visti nipotini, scese dall'autobus, cercando di nascondere ogni espressione che potesse far intendere una qualche forma di dileggio.
Si piantò sui piedi, appoggiò lo zaino a terra, e applaudì.
Nella cuffia destra un pezzo di Wagner, a dargli l'impressione di maestà di cui aveva bisogno, per la continuazione di quel percorso di sfida a se stesso, di allontanamento da quel che chiamava, con un punta di sprezzante e incongrua genericità, "altro". Come la vecchietta seduta accanto a lui, appena salita, settimana enigmistica in mano, pesante valigia sulle nude ginocchia, che parlava con cadenzato candore dei suoi tre tesori, della città nuova che l'aspettava, del ritorno così lontano, di lì a tre mesi.
Tornò a guardare, fuori dal finestrino, la pioggia che cadeva sugli ombrelli di tre impiegati della compagnia. Tre autisti, forse, o bigliettai. Di età diverse, si scambiavano un giornale sportivo e giocose battute, a quanto si poteva capire dai muti movimenti dei loro corpi ben pasciuti.
Come affascinato dalla spontaneità del loro incedere, dalla naturalezza dei loro gesti, dalla calma gioiosità del loro essere, chiese scusa alla signora e si mise a seguire il loro labiale.
Sembravano discorrere di un tipo, salito quella stessa mattina sul "mezzo" di uno dei tre, che continuava a chiedere con insistenza gli orari per il ritorno, perorando la sua causa con esempi di amici rimasti a piedi per errori altrui.
Colui che parlava, issatosi ormai sul trono di re e conduttore della conversazione, orgoglioso intrattenitore, imitava la sua "parlata" abruzzese, gesticolava con vibrante maestria la sua petulante insistenza, suscitando istante dopo istante sorrisi di comprensione, furente indignazione, mordaci risa di scherno.
Continuò ancora a bearsi di quello spettacolo, travolto dal fascino dissonante che aveva su di lui quella schietta normalità, quell'aperta e verace allegria, alla quale non si sentiva in grado di partecipare - chiuso nel suo mondo di pudica e candida immaterialità, devastato nel profondo dalla sua catena di riferimenti, inasprito dal disprezzo derivante dall'illusorietà delle sue conoscenze - ma che lui - lui scarto, lui inetto, lui distratto, distrutto e distruttore, lui, rifiuto della società che rifiutava - non poteva fare a meno di ammirare segretamente.
Fece tacere il Tannhauser, salutò distrattamente la signora e i suoi mai visti nipotini, scese dall'autobus, cercando di nascondere ogni espressione che potesse far intendere una qualche forma di dileggio.
Si piantò sui piedi, appoggiò lo zaino a terra, e applaudì.
10 luglio 2011
Di leggermente diverso
Lì, distesi sulla sabbia, guardavano le onde agitarsi sul lungomare delle loro tempeste interiori, alternando mugolii di sonno a fitte mura di parole in libertà.
Discorrevano da più di un'ora, ormai, gli occhi su quel blu dipinto di nero che è il mare notturno, lontani da ogni giovanile falò, lontani dal fuoco di quelle gioiose sere di luglio che non potevano -ora- non tornare alla memoria, datate come una fotografia di Degas.
La sua leggera camicetta a pois stonava con il fascino decadente di un'atmosfera che - se solo avessero voluto - avrebbero facilmente potuto riempire di importanza, trovando in essa lo spunto iniziale, lo slancio per la fine.
Lei non voleva. Adagiata sui suoi soliti discorsi, trascinava stancamente la conversazione, cercando in lui più un appoggio che un interlocutore.
Era incredibile, come si fossero ridotti a quel punto. A parlare del cane della sorella, delle buste della spesa, del regalo per il prossimo compleanno della nipotina. Sotto quelle stelle. Di fronte a quel nero che solo lui sembrava trovare ineluttabile, etereo.
Lo avvertiva, lo sentiva. Vedeva -al di là della profondità del suo sguardo- la netta sensazione della fine. E continuava, proprio per questo motivo. Ora il meteo, addirittura.
La pioggia che avrebbe ulteriormente ingrossato quelle onde. Le nuvole, presto a ricoprire la luna.
Luna, sua compagna di viaggio. Non poteva non indugiare in quel pensiero. Nel "come è possibile". Le immagini richiamate alla memoria lo spingevano nella primavera della loro amicizia, in quelle appassionate e feconde discussioni sul circostante, sull'artificiosità della realtà, la loro personalissima critica all'altrui ragione.
Erano corpo unico, allora, i cui organi si prendevano una pausa dai regolati meccanismi del loro funzionamento, in un meditato confronto da cui trarre nuova, pura linfa vitale.
Spalancò le narici alla salsedine, cercando di non lasciarlo intendere. Lo vedeva annuire, nella maschera che copriva il suo meditabondo riflettere. No, naturalmente non la stava ascoltando. Non che volesse essere realmente sentita.
"Come se il nostro mondo si frapponesse, ora, tra i nostri animi e i rispettivi oggetti del desiderio. Senza quella dionisiaca forza trascinante, impeto furibondo, che un tempo ci appagava. E senza la possibilità di accontentarci dell'apollinea caricatura di noi stessi, forma impressa a nostra immagine e somiglianza, eppur forma, forma!"
Cercò di farlo sorridere menzionando l'uomo incontrato al bar, e il suo cappello assurdo.
"Assurdo, assurdo... Come il traffico alle tre di notte, come un buon consiglio. Come starmene qui, a parlare con una sconosciuta, dietro il filtro che abbiamo dovuto mettere alle nostre essenze, rendendole tristemente imperfette."
Non annuiva nemmeno, ora. Capiva di averlo perso definitivamente, sentiva di non poter più far nulla per trattenerlo, con la sua misera diatriba sui colori di quel borsalino.
Eppure, qualcosa lo legava. Qualcosa lo avvolgeva. "L'intimità, non perchè renda necessariamente felici, ma perchè necessaria."
Le strinse la mano, sentendola andar via.
Discorrevano da più di un'ora, ormai, gli occhi su quel blu dipinto di nero che è il mare notturno, lontani da ogni giovanile falò, lontani dal fuoco di quelle gioiose sere di luglio che non potevano -ora- non tornare alla memoria, datate come una fotografia di Degas.
La sua leggera camicetta a pois stonava con il fascino decadente di un'atmosfera che - se solo avessero voluto - avrebbero facilmente potuto riempire di importanza, trovando in essa lo spunto iniziale, lo slancio per la fine.
Lei non voleva. Adagiata sui suoi soliti discorsi, trascinava stancamente la conversazione, cercando in lui più un appoggio che un interlocutore.
Era incredibile, come si fossero ridotti a quel punto. A parlare del cane della sorella, delle buste della spesa, del regalo per il prossimo compleanno della nipotina. Sotto quelle stelle. Di fronte a quel nero che solo lui sembrava trovare ineluttabile, etereo.
Lo avvertiva, lo sentiva. Vedeva -al di là della profondità del suo sguardo- la netta sensazione della fine. E continuava, proprio per questo motivo. Ora il meteo, addirittura.
La pioggia che avrebbe ulteriormente ingrossato quelle onde. Le nuvole, presto a ricoprire la luna.
Luna, sua compagna di viaggio. Non poteva non indugiare in quel pensiero. Nel "come è possibile". Le immagini richiamate alla memoria lo spingevano nella primavera della loro amicizia, in quelle appassionate e feconde discussioni sul circostante, sull'artificiosità della realtà, la loro personalissima critica all'altrui ragione.
Erano corpo unico, allora, i cui organi si prendevano una pausa dai regolati meccanismi del loro funzionamento, in un meditato confronto da cui trarre nuova, pura linfa vitale.
Spalancò le narici alla salsedine, cercando di non lasciarlo intendere. Lo vedeva annuire, nella maschera che copriva il suo meditabondo riflettere. No, naturalmente non la stava ascoltando. Non che volesse essere realmente sentita.
"Come se il nostro mondo si frapponesse, ora, tra i nostri animi e i rispettivi oggetti del desiderio. Senza quella dionisiaca forza trascinante, impeto furibondo, che un tempo ci appagava. E senza la possibilità di accontentarci dell'apollinea caricatura di noi stessi, forma impressa a nostra immagine e somiglianza, eppur forma, forma!"
Cercò di farlo sorridere menzionando l'uomo incontrato al bar, e il suo cappello assurdo.
"Assurdo, assurdo... Come il traffico alle tre di notte, come un buon consiglio. Come starmene qui, a parlare con una sconosciuta, dietro il filtro che abbiamo dovuto mettere alle nostre essenze, rendendole tristemente imperfette."
Non annuiva nemmeno, ora. Capiva di averlo perso definitivamente, sentiva di non poter più far nulla per trattenerlo, con la sua misera diatriba sui colori di quel borsalino.
Eppure, qualcosa lo legava. Qualcosa lo avvolgeva. "L'intimità, non perchè renda necessariamente felici, ma perchè necessaria."
Le strinse la mano, sentendola andar via.
8 febbraio 2011
Illumina
La riconobbe, nell'immensità dell'azzurro.
Quel maglioncino verde. Quello di un tempo. Quello orrendo, che non sopportava, e che pure amava alla follia.
Riconobbe il suo viso. I suoi occhi, più azzurri dell'azzurro che li circondava.
Era cambiata.
Dicevano che, in quello stato, tutto sembrava più pieno. Più colorato. Più vivo. E avevano ragione.
Era già diversa, ora.
Gonna da gitana. Capelli rossi, come non li aveva mai avuti.
Sembrava aspettasse.
Niente, in quel luogo, aveva un nome. Niente poteva essere descritto.
Niente era vero.
Anelli di concetti e azioni in un'interminabile catena.
Senza volontà. Senza scrupoli. Senza leggi.
Ormai la fissava da minuti. Vedeva in lei la propulsione. L'alfa, da cui tutto era partito, e da cui tutto avrebbe avuto un nuovo, meraviglioso inizio.
Forza genitrice, foga universale.
"Bisogna necessariamente perdersi, per ritrovarsi?"
"Evidentemente."
Aveva la bellezza dell'ossimoro. Quella che non aveva più intravisto, dopo quel giorno. Quella che gli mancava tanto.
Allora ne elencò quanti più era in grado di ricordarne.
Dolcissimo baratro. Inebriante imperfezione. Rosso spento.
Viva morte.
Lei sorrise. Prese una sigaretta, ne offrì una. E fumarono insieme, in silenzio.
L'immaterialità di quel fumo diede un metro di paragone al loro stato. Li definì. E li vinse.
Risero della loro passata imperfezione. Risero del loro sentirsi, ancora una volta, imperfetti.
Fluttuavano, e sentivano ancora il peso dei loro corpi.
A braccia aperte sull'infinito, videro la metafora della loro esistenza dissolversi nello splendente etere della nuova realtà.
Dell'eternità.
E risero ancora. Della loro miseria.
Quel maglioncino verde. Quello di un tempo. Quello orrendo, che non sopportava, e che pure amava alla follia.
Riconobbe il suo viso. I suoi occhi, più azzurri dell'azzurro che li circondava.
Era cambiata.
Dicevano che, in quello stato, tutto sembrava più pieno. Più colorato. Più vivo. E avevano ragione.
Era già diversa, ora.
Gonna da gitana. Capelli rossi, come non li aveva mai avuti.
Sembrava aspettasse.
Niente, in quel luogo, aveva un nome. Niente poteva essere descritto.
Niente era vero.
Anelli di concetti e azioni in un'interminabile catena.
Senza volontà. Senza scrupoli. Senza leggi.
Ormai la fissava da minuti. Vedeva in lei la propulsione. L'alfa, da cui tutto era partito, e da cui tutto avrebbe avuto un nuovo, meraviglioso inizio.
Forza genitrice, foga universale.
"Bisogna necessariamente perdersi, per ritrovarsi?"
"Evidentemente."
Aveva la bellezza dell'ossimoro. Quella che non aveva più intravisto, dopo quel giorno. Quella che gli mancava tanto.
Allora ne elencò quanti più era in grado di ricordarne.
Dolcissimo baratro. Inebriante imperfezione. Rosso spento.
Viva morte.
Lei sorrise. Prese una sigaretta, ne offrì una. E fumarono insieme, in silenzio.
L'immaterialità di quel fumo diede un metro di paragone al loro stato. Li definì. E li vinse.
Risero della loro passata imperfezione. Risero del loro sentirsi, ancora una volta, imperfetti.
Fluttuavano, e sentivano ancora il peso dei loro corpi.
A braccia aperte sull'infinito, videro la metafora della loro esistenza dissolversi nello splendente etere della nuova realtà.
Dell'eternità.
E risero ancora. Della loro miseria.
22 gennaio 2011
Train in vain
Prese lo specchietto.
Un gesto automatico, ormai.
Come sorridere vedendo la neve. Come togliere e rimettere il tappo della penna nei momenti di noia. Come smettere di leggere quando bussano alla porta.
Come specchiarsi, quando si incontra una persona per la prima volta.
Perchè l'idea che avesse di lei potesse combaciare il più possibile con quella di chi le si stava avvicinando. Chiunque fosse. Soprattutto in quel tipo di situazione. Come ogni mattina.
Guardò la sua immagine riflessa. I capelli fuori posto, le occhiaie scavate, le labbra troppo carnose. Che a lei non dispiacevano, ma solo a lei.
Solo dopo aver terminato il suo piccolo, furtivo rito quotidiano, rivolse l'attenzione al suo nuovo amico porzione singola, come li chiamavano in un film che aveva guardato milioni di volte.
Occhiali neri, maglietta firmata.
Dalla vita in giù non riusciva a vederlo, ma avrebbe scommesso metà della sua borsa di studio su un paio di jeans strappati ma non troppo.
"Ciao."
"Ciao."
"Posso sedermi qui?"
"Fai pure."
Meglio lui di una settantenne che non ti fa studiare perchè si sente in bisogno di parlare del meteo, e delle sue rughe e della nipote che ti somiglia tanto e che proprio non riesce a trovarlo un posto fisso, anche se si è laureata con 110 e lode e ha fatto tre - come si dice, aiutami tu chè sei più giovane... "Master." Ecco, sì, dolcezza, master.
Meglio lui, decisamente, nonostante i jeans strappati ma non troppo.
Nel peggiore dei casi, avrebbe visto i suoi capelli troppo fuori posto, le occhiaie troppo scavate, le labbra troppo carnose, e l'avrebbe lasciata perdere.
La verità è che non le piaceva, il treno.
Un tempo le sembrava simbolo di indipendenza e libertà. Muoversi da sola, senza bisogno di essere accompagnata. Conoscere nuove persone. Poter persino parlare liberamente di se stessa, con la consapevolezza di non dover più reincontrare le persone con cui lo stava facendo.
Ma la bellezza è solo nella novità, e l'entusiasmo si spegne nello spazio di un attimo.
Non le piacevano le amicizie porzione singola, non le piaceva guardare il finestrino senza poter scorgere nulla. Non le piaceva la retorica delle rotaie che portano dappertutto, e della meccanica perfetta degli scambi, e dell'affascinante divisa del ferroviere, e dell'attaccamento alla pura macchina del personale di bordo.
Adesso, il treno simboleggiava solo il totale annullamento della facoltà umana di scegliere.
Perchè con il treno si hanno solo due opportunità: prenderlo, e seguirlo fino a destinazione, anche se non è precisamente dove vorresti andare.
O perderlo, e rimanere fermo.
E a lei, a lei che amava le vie di mezzo, più per un'ansia di distinzione che per una morigeratezza di costumi, quel meccanismo di scelta costretta, di costi e benefici - se lo stava ripetendo da tre ore, ormai - non piaceva affatto.
Riguardò il tizio dagli occhiali scuri. Lo scrutò per un attimo, approfittando del suo perdersi nei fili terribilmente intrecciati delle cuffiette Sony da 80 euro.
Ed un secondo prima che lei potesse distogliere finalmente gli occhi, i loro sguardi si incrociarono.
"Hai voglia di parlare, vero?"
Un gesto automatico, ormai.
Come sorridere vedendo la neve. Come togliere e rimettere il tappo della penna nei momenti di noia. Come smettere di leggere quando bussano alla porta.
Come specchiarsi, quando si incontra una persona per la prima volta.
Perchè l'idea che avesse di lei potesse combaciare il più possibile con quella di chi le si stava avvicinando. Chiunque fosse. Soprattutto in quel tipo di situazione. Come ogni mattina.
Guardò la sua immagine riflessa. I capelli fuori posto, le occhiaie scavate, le labbra troppo carnose. Che a lei non dispiacevano, ma solo a lei.
Solo dopo aver terminato il suo piccolo, furtivo rito quotidiano, rivolse l'attenzione al suo nuovo amico porzione singola, come li chiamavano in un film che aveva guardato milioni di volte.
Occhiali neri, maglietta firmata.
Dalla vita in giù non riusciva a vederlo, ma avrebbe scommesso metà della sua borsa di studio su un paio di jeans strappati ma non troppo.
"Ciao."
"Ciao."
"Posso sedermi qui?"
"Fai pure."
Meglio lui di una settantenne che non ti fa studiare perchè si sente in bisogno di parlare del meteo, e delle sue rughe e della nipote che ti somiglia tanto e che proprio non riesce a trovarlo un posto fisso, anche se si è laureata con 110 e lode e ha fatto tre - come si dice, aiutami tu chè sei più giovane... "Master." Ecco, sì, dolcezza, master.
Meglio lui, decisamente, nonostante i jeans strappati ma non troppo.
Nel peggiore dei casi, avrebbe visto i suoi capelli troppo fuori posto, le occhiaie troppo scavate, le labbra troppo carnose, e l'avrebbe lasciata perdere.
La verità è che non le piaceva, il treno.
Un tempo le sembrava simbolo di indipendenza e libertà. Muoversi da sola, senza bisogno di essere accompagnata. Conoscere nuove persone. Poter persino parlare liberamente di se stessa, con la consapevolezza di non dover più reincontrare le persone con cui lo stava facendo.
Ma la bellezza è solo nella novità, e l'entusiasmo si spegne nello spazio di un attimo.
Non le piacevano le amicizie porzione singola, non le piaceva guardare il finestrino senza poter scorgere nulla. Non le piaceva la retorica delle rotaie che portano dappertutto, e della meccanica perfetta degli scambi, e dell'affascinante divisa del ferroviere, e dell'attaccamento alla pura macchina del personale di bordo.
Adesso, il treno simboleggiava solo il totale annullamento della facoltà umana di scegliere.
Perchè con il treno si hanno solo due opportunità: prenderlo, e seguirlo fino a destinazione, anche se non è precisamente dove vorresti andare.
O perderlo, e rimanere fermo.
E a lei, a lei che amava le vie di mezzo, più per un'ansia di distinzione che per una morigeratezza di costumi, quel meccanismo di scelta costretta, di costi e benefici - se lo stava ripetendo da tre ore, ormai - non piaceva affatto.
Riguardò il tizio dagli occhiali scuri. Lo scrutò per un attimo, approfittando del suo perdersi nei fili terribilmente intrecciati delle cuffiette Sony da 80 euro.
Ed un secondo prima che lei potesse distogliere finalmente gli occhi, i loro sguardi si incrociarono.
"Hai voglia di parlare, vero?"
22 ottobre 2010
Road to nowhere
Aveva dimenticato la scuola.
Completamente rimossa. Cancellata.
“Colpa di Milano”, pensò, svegliandosi al bip-bip del suo fedele cellulare.
In effetti le classiche tappe di avvicinamento alla prima odiosa giornata scolastica, quell’estate, erano mancate.
L’acquisto dei libri, la spasmodica ricerca dell’ultima Smemo, di qualche quadernone e di un astuccio decente.
Operazioni che odiava, ma che – in un modo o nell’altro – cominciavano a inserirlo nel mood da liceale.
Aveva delegato tutto alla madre, quell’anno. Che aveva comprato la metà dei libri, un orrendo portapenne molto anni ‘80 e un diario della Gazzetta dello Sport.
Quasi non riusciva a ricordarsi delle volte in cui andava a comprarla lui, la roba. Con suo padre.
Suo padre.
“Ma dove le hai prese, ‘ste cose?”
“Una volta ti piaceva, il calcio.”
“Appunto. Una volta.”
Eppure gliel’avevano detto che non sarebbe stata una grande idea, tornare da Milano una dozzina di giorni prima del suo “ultimo primo giorno di scuola”.
No, non avevano ragione. Ma forse nemmeno tutti i torti.
La strana euforia della sera precedente stava già sparendo.
“Colpa della scuola”.
Mise su un paio di jeans e le scarpe da ginnastica un po’ rotte che da sempre lo contraddistinguevano. Indossò anche la maglietta “Fashion is for idiots”, regalatagli da Marta.
Sapeva che il resto dei suoi compagni di classe lo avrebbe guardato male. Sapeva che lo avrebbero preso in giro per quel taglio di capelli un po’ approssimativo. Sapeva anche che probabilmente non avrebbe avuto il coraggio di parlarle.
Andò a svegliare il gatto, gli accarezzò quel pelo ispido che meritava una lavata.
Nella cartella un quaderno, il diario, tre matite e lo skate.
Prima di uscire di casa, ingurgitò un po’ di quell’insulso caffè da due soldi che sua madre gli preparava, credendo di fargli un piacere.
“Si ricomincia”.
Ricordava il suo primo giorno di scuola. Il primo primo. Quello vero.
I suoi compagni di classe non ricordavano nulla.
Lui invece sì. Ogni insulso dettaglio.
L’abbraccio di sua madre, quello stupido “da oggi sei un ometto, Nico”. Il bacio di suo padre.
Suo padre.
La faccia scocciata di sua sorella, all’epoca quattordicenne. Da quel giorno in poi le sarebbe toccato anche accompagnare Niccolò a scuola, con tutti i fastidi del caso.
La sua mano vagamente sudaticcia.
Ricordava le facce stranite di quelli che sarebbero diventati i suoi “amichetti”. Con cui avrebbe stretto amicizie one shot di cinque anni. Che si sarebbero poi spente, come un fuoco acceso male. Float into a mist, avrebbe cantato Lou Reed.
Aveva subito approcciato una bambina carina. Elena, si chiamava. Le aveva stretto la mano con la tenerezza e la temerarietà dei cinque anni.
Lei era scoppiata a piangere, è vero. Ma questo è un altro discorso.
Quel giorno aveva conosciuto anche Max.
L’unico di quella classe che vedesse ancora. Che avesse continuato a frequentare anche dopo essere stato bocciato. O, per dirla alla maniera di sua madre, “dopo aver perso un anno”.
Anche dopo la morte di suo padre.
Suo padre.
Erano diversi, loro due. Molto diversi. Uno molto aperto, l’altro introverso. Uno un po’ superficiale, l’altro parecchio sensibile. Uno patito di tecnologia, l’altro romantico pittore.
A volte sembrava che la loro amicizia andasse avanti solo per inerzia. Perché non conoscevano molte altre persone, perché non avevano voglia di conoscerne.
O forse no.
Forse era proprio quest’essere molto diversi che li rendeva così uniti.
Avevano passato insieme più della metà dei loro pomeriggi. Tra stupide partite a Fifa, versioni di latino copiate a vicenda e lunghe passeggiate.
Insieme avevano scoperto il fumo. Insieme avevano bevuto la loro prima birra. Insieme.
Certo, a volte capitava di doverlo accompagnare in un improbabile giro al centro commerciale per trovare l’ultimo accessorio per I-Pad, o di dover ascoltare controvoglia gli Oasis.
Ma Max era quasi tutto ciò che avesse. Max era suo amico, Max era suo fratello. Max era la sua vera famiglia.
Mentre pensava, si era fermato davanti all’uscio. Quasi senza accorgersene.
Si stupiva spesso di come gli altri riuscissero a perdersi in pensieri e considerazioni continuando a vivere la loro vita. Continuando ad andare al lavoro, continuando a cucinare, a lavare i piatti o a stirare camicie.
Lui non ne era capace.
Era convinto che pensare sia un lavoro. Qualcosa di impegnativo, che deve assolutamente concentrare ogni singola sinapsi del cervello di una persona.
Non riusciva a pensare mentre camminava. Mentre era a scuola. Mentre ascoltava musica.
No, non ci riusciva.
Doveva prima fermarsi, buttarsi sul letto, sedersi.
Poi poteva cominciare a riflettere, immaginare. A creare.
Molti gli rinfacciavano la sua pigrizia. Molti gli dicevano che non combinava mai niente.
Non era così. Lui pensava, ed era già tanto.
Ormai aveva perso l’autobus, doveva fare quei due chilometri a piedi.
Probabilmente sarebbe arrivato tardi al primo giorno di scuola.
Triste, molto triste.
Anzi, probabilmente non sarebbe affatto arrivato.
Triste, molto triste.
Anzi, probabilmente non sarebbe affatto arrivato.
E no, non gli importava.
Prese il lettore MP3 e ricominciò a guardarsi intorno, con “Shine on you crazy diamond” nelle orecchie.
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