Da che deriva la nostra solitudine? Il nostro bisogno di sentirci compresi?
A volte bisognerebbe chiederci quante cose facciamo realmente per noi e quante semplicemente per sentirci accettati.
Quanta parte del tempo sia davvero nostra, e quanto invece ne sprechiamo in azioni effimere, sconsiderate o, al più, inutili.
Quanto il miglioramento del nostro animo, la tensione verso l'alto sia sentita, e quanto invece ci serva al raggiungimento dell'unico scopo della nostra vita.
La condivisione.
Ne avevo già parlato, a suo tempo.
Ed è successo di nuovo, ieri.
Un signore che, sull'autobus, vedendomi intento nel "Così parlo Zarathustra", mi ha chiesto cosa stessi leggendo. Un sorriso, un commentino genere "certo che Nietzsche può essere un po' esagerato, a volte, ma scrive proprio bene", un'osservazione sulle traduzioni di un tempo che "potevano essere più complicate, ma come rendevano bene il testo".
Ecco, io non riesco a capire la soddisfazione che ce ne deriva.
Ogni volta.
Ogni volta che qualcuno si infila nostro piccolo limitato mondo.
Ogni volta che "troviamo casa nella mente di qualcuno".
Come se il solo piacere che derivi da ogni azione della nostra vita sia la condivisione.
(Non lo scambio, eh. Chè quello non solo è inevitabile ma costruttivo.
Per quanto legare persone e concetti alla lunga possa far male, ma questo è un altro discorso.)
Non lo scambio, dicevo, ma la condivisione. Il sentirsi appartenenti allo stesso gruppo. Avere gli stessi valori, gli stessi interessi. Credere nelle stesse cose. Sentire di avere lo stesso "Erlebnis".
Come se ogni certezza fuggisse nel momento in cui l'altro con cui relazionarsi non ci fosse più. Come se rimanesse solo il nostro sporco, inutile io.
Sì, sentiamo di avere bisogno di conferme.
E se non le abbiamo, il nostro mondo vacilla.
Come quando da piccoli ti spostavano la sedia e per un attimo tutte le leggi fisiche ti sembravano alterate, e non capivi come fosse possibile che tu stessi cadendo, proprio in quel momento, proprio lì.
Il continuo terremoto dell'io.
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31 dicembre 2010
27 dicembre 2010
L'idiota - parte 1 di 4
Il segreto della vita è non ripetere gli stessi errori.
Perchè il dolore, lo sai, porta alla conoscenza.
E la conoscenza porta alla felicità.
Perchè rileggere le vecchie parole non aiuta a superare.
Anzi, rinnova la sensazione di abbandono.
Perchè, mio caro principe Myskin, già abbandonato una volta ( e solo ora ne ricordo il motivo ), certe cose non hanno una ragione. Non esiste un motivo.
Nastas'ya Filippovna era davvero la donna più bella, la donna più pura, un angelo che ti avrebbe salvato. L'unica degna del tuo innocente e gioioso amore.
E tu eri davvero l'uomo giusto per lei. Quello che aveva sempre sognato.
E avreste davvero avuto una vita felice, mio caro principe Myskin, con il milione e mezzo di rubli della tua eredità, e non te ne sarebbe importato nulla di quegli inetti, stupidi, mediocri mortali che non capendo il tuo animo ti chiamavano "idiota".
Perchè idiota è chi idiota fa, avrebbe risposto un tuo alter-ego, 130 anni dopo, in uno dei film più belli che il mondo abbia creato.
E invece no, mio caro principe.
Nastas'ya non c'è più. Andata via, scappata con il vile Rogozin.
Senza ragione, senza una colpa.
E ora sei qui, a perdonare. Per il tuo animo meravigliosamente puro, scevro di ogni contaminazione.
Probabilmente troverai anche tu la tua felicità. Magari quella Aglaya sposerà la tua ricchezza, e riuscirai a fartela bastare.
Ma io, carissimo principe, della tua storia non voglio saperne più nulla.
Oscura mi rimarrà la tua sorte, come oscuro è il destino degli uomini giusti, liberi, che nulla pretendono, che nulla ottengono.
Non so se avrai Aglaya. Non mi interessa. Non voglio leggerlo.
La tua Nastas'ya non c'è più.
E perchè andare avanti, mio amato principe?
Perchè il dolore, lo sai, porta alla conoscenza.
E la conoscenza porta alla felicità.
Perchè rileggere le vecchie parole non aiuta a superare.
Anzi, rinnova la sensazione di abbandono.
Perchè, mio caro principe Myskin, già abbandonato una volta ( e solo ora ne ricordo il motivo ), certe cose non hanno una ragione. Non esiste un motivo.
Nastas'ya Filippovna era davvero la donna più bella, la donna più pura, un angelo che ti avrebbe salvato. L'unica degna del tuo innocente e gioioso amore.
E tu eri davvero l'uomo giusto per lei. Quello che aveva sempre sognato.
E avreste davvero avuto una vita felice, mio caro principe Myskin, con il milione e mezzo di rubli della tua eredità, e non te ne sarebbe importato nulla di quegli inetti, stupidi, mediocri mortali che non capendo il tuo animo ti chiamavano "idiota".
Perchè idiota è chi idiota fa, avrebbe risposto un tuo alter-ego, 130 anni dopo, in uno dei film più belli che il mondo abbia creato.
E invece no, mio caro principe.
Nastas'ya non c'è più. Andata via, scappata con il vile Rogozin.
Senza ragione, senza una colpa.
E ora sei qui, a perdonare. Per il tuo animo meravigliosamente puro, scevro di ogni contaminazione.
Probabilmente troverai anche tu la tua felicità. Magari quella Aglaya sposerà la tua ricchezza, e riuscirai a fartela bastare.
Ma io, carissimo principe, della tua storia non voglio saperne più nulla.
Oscura mi rimarrà la tua sorte, come oscuro è il destino degli uomini giusti, liberi, che nulla pretendono, che nulla ottengono.
Non so se avrai Aglaya. Non mi interessa. Non voglio leggerlo.
La tua Nastas'ya non c'è più.
E perchè andare avanti, mio amato principe?
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16 novembre 2010
Message in a bottle
Perchè voi ragazzi non avete materialmente il tempo di pensare.
Vi alzate, fate la doccia, venite a scuola.
Tornate a casa, studiate.
Al massimo fingete di divertirvi con il solito gruppo di amici.
Tornate a casa, fate la doccia, mangiate, andate a letto.
E nessun momento per voi stessi. Nessun momento per lasciarvi andare.
Voi ragazzi siete talmente occupati che, se mai vi capitasse di avere un giorno libero, cerchereste di occuparlo in ogni modo.
Siete lì, a darvi delle scadenze. Ad investire su voi stessi.
A pensare al futuro, che non è pensare.
A pensare al presente, che non è pensare.
No, ragazzi. Lo so che state scuotendo la testa. Non è che vi manca il tempo.
Vi manca proprio l'attitudine.
Io non voglio fare quello che implora il ritorno dei bei tempi andati, ma a me sembra che voi non abbiate il coraggio, nè la voglia o la capacità di fermarvi.
Di prendere una sedia e sedervi a un tavolino, buttando giù due righe su di voi con una penna stilo in mano.
Due righe su cosa VOI vorreste dalla vostra vita. Su quale piega farle prendere.
O su cosa, banalmente, vorreste mangiare domani.
Perchè voi ragazzi dovete studiare. Dovete avere una vita sociale decente. Dovete accontentare i vostri genitori.
Dovete passare del tempo a casa, chè se no pare brutto.
Dovete, dovete, dovete.
Scuola, famiglia, amici.
Dovete.
Ma ragazzi, per favore. Ora basta.
Guardatevi intorno.
Fermatevi.
Ora.
Dovete farlo, ragazzi.
Vi alzate, fate la doccia, venite a scuola.
Tornate a casa, studiate.
Al massimo fingete di divertirvi con il solito gruppo di amici.
Tornate a casa, fate la doccia, mangiate, andate a letto.
E nessun momento per voi stessi. Nessun momento per lasciarvi andare.
Voi ragazzi siete talmente occupati che, se mai vi capitasse di avere un giorno libero, cerchereste di occuparlo in ogni modo.
Siete lì, a darvi delle scadenze. Ad investire su voi stessi.
A pensare al futuro, che non è pensare.
A pensare al presente, che non è pensare.
No, ragazzi. Lo so che state scuotendo la testa. Non è che vi manca il tempo.
Vi manca proprio l'attitudine.
Io non voglio fare quello che implora il ritorno dei bei tempi andati, ma a me sembra che voi non abbiate il coraggio, nè la voglia o la capacità di fermarvi.
Di prendere una sedia e sedervi a un tavolino, buttando giù due righe su di voi con una penna stilo in mano.
Due righe su cosa VOI vorreste dalla vostra vita. Su quale piega farle prendere.
O su cosa, banalmente, vorreste mangiare domani.
Perchè voi ragazzi dovete studiare. Dovete avere una vita sociale decente. Dovete accontentare i vostri genitori.
Dovete passare del tempo a casa, chè se no pare brutto.
Dovete, dovete, dovete.
Scuola, famiglia, amici.
Dovete.
Ma ragazzi, per favore. Ora basta.
Guardatevi intorno.
Fermatevi.
Ora.
Dovete farlo, ragazzi.
22 ottobre 2010
Road to nowhere
Aveva dimenticato la scuola.
Completamente rimossa. Cancellata.
“Colpa di Milano”, pensò, svegliandosi al bip-bip del suo fedele cellulare.
In effetti le classiche tappe di avvicinamento alla prima odiosa giornata scolastica, quell’estate, erano mancate.
L’acquisto dei libri, la spasmodica ricerca dell’ultima Smemo, di qualche quadernone e di un astuccio decente.
Operazioni che odiava, ma che – in un modo o nell’altro – cominciavano a inserirlo nel mood da liceale.
Aveva delegato tutto alla madre, quell’anno. Che aveva comprato la metà dei libri, un orrendo portapenne molto anni ‘80 e un diario della Gazzetta dello Sport.
Quasi non riusciva a ricordarsi delle volte in cui andava a comprarla lui, la roba. Con suo padre.
Suo padre.
“Ma dove le hai prese, ‘ste cose?”
“Una volta ti piaceva, il calcio.”
“Appunto. Una volta.”
Eppure gliel’avevano detto che non sarebbe stata una grande idea, tornare da Milano una dozzina di giorni prima del suo “ultimo primo giorno di scuola”.
No, non avevano ragione. Ma forse nemmeno tutti i torti.
La strana euforia della sera precedente stava già sparendo.
“Colpa della scuola”.
Mise su un paio di jeans e le scarpe da ginnastica un po’ rotte che da sempre lo contraddistinguevano. Indossò anche la maglietta “Fashion is for idiots”, regalatagli da Marta.
Sapeva che il resto dei suoi compagni di classe lo avrebbe guardato male. Sapeva che lo avrebbero preso in giro per quel taglio di capelli un po’ approssimativo. Sapeva anche che probabilmente non avrebbe avuto il coraggio di parlarle.
Andò a svegliare il gatto, gli accarezzò quel pelo ispido che meritava una lavata.
Nella cartella un quaderno, il diario, tre matite e lo skate.
Prima di uscire di casa, ingurgitò un po’ di quell’insulso caffè da due soldi che sua madre gli preparava, credendo di fargli un piacere.
“Si ricomincia”.
Ricordava il suo primo giorno di scuola. Il primo primo. Quello vero.
I suoi compagni di classe non ricordavano nulla.
Lui invece sì. Ogni insulso dettaglio.
L’abbraccio di sua madre, quello stupido “da oggi sei un ometto, Nico”. Il bacio di suo padre.
Suo padre.
La faccia scocciata di sua sorella, all’epoca quattordicenne. Da quel giorno in poi le sarebbe toccato anche accompagnare Niccolò a scuola, con tutti i fastidi del caso.
La sua mano vagamente sudaticcia.
Ricordava le facce stranite di quelli che sarebbero diventati i suoi “amichetti”. Con cui avrebbe stretto amicizie one shot di cinque anni. Che si sarebbero poi spente, come un fuoco acceso male. Float into a mist, avrebbe cantato Lou Reed.
Aveva subito approcciato una bambina carina. Elena, si chiamava. Le aveva stretto la mano con la tenerezza e la temerarietà dei cinque anni.
Lei era scoppiata a piangere, è vero. Ma questo è un altro discorso.
Quel giorno aveva conosciuto anche Max.
L’unico di quella classe che vedesse ancora. Che avesse continuato a frequentare anche dopo essere stato bocciato. O, per dirla alla maniera di sua madre, “dopo aver perso un anno”.
Anche dopo la morte di suo padre.
Suo padre.
Erano diversi, loro due. Molto diversi. Uno molto aperto, l’altro introverso. Uno un po’ superficiale, l’altro parecchio sensibile. Uno patito di tecnologia, l’altro romantico pittore.
A volte sembrava che la loro amicizia andasse avanti solo per inerzia. Perché non conoscevano molte altre persone, perché non avevano voglia di conoscerne.
O forse no.
Forse era proprio quest’essere molto diversi che li rendeva così uniti.
Avevano passato insieme più della metà dei loro pomeriggi. Tra stupide partite a Fifa, versioni di latino copiate a vicenda e lunghe passeggiate.
Insieme avevano scoperto il fumo. Insieme avevano bevuto la loro prima birra. Insieme.
Certo, a volte capitava di doverlo accompagnare in un improbabile giro al centro commerciale per trovare l’ultimo accessorio per I-Pad, o di dover ascoltare controvoglia gli Oasis.
Ma Max era quasi tutto ciò che avesse. Max era suo amico, Max era suo fratello. Max era la sua vera famiglia.
Mentre pensava, si era fermato davanti all’uscio. Quasi senza accorgersene.
Si stupiva spesso di come gli altri riuscissero a perdersi in pensieri e considerazioni continuando a vivere la loro vita. Continuando ad andare al lavoro, continuando a cucinare, a lavare i piatti o a stirare camicie.
Lui non ne era capace.
Era convinto che pensare sia un lavoro. Qualcosa di impegnativo, che deve assolutamente concentrare ogni singola sinapsi del cervello di una persona.
Non riusciva a pensare mentre camminava. Mentre era a scuola. Mentre ascoltava musica.
No, non ci riusciva.
Doveva prima fermarsi, buttarsi sul letto, sedersi.
Poi poteva cominciare a riflettere, immaginare. A creare.
Molti gli rinfacciavano la sua pigrizia. Molti gli dicevano che non combinava mai niente.
Non era così. Lui pensava, ed era già tanto.
Ormai aveva perso l’autobus, doveva fare quei due chilometri a piedi.
Probabilmente sarebbe arrivato tardi al primo giorno di scuola.
Triste, molto triste.
Anzi, probabilmente non sarebbe affatto arrivato.
Triste, molto triste.
Anzi, probabilmente non sarebbe affatto arrivato.
E no, non gli importava.
Prese il lettore MP3 e ricominciò a guardarsi intorno, con “Shine on you crazy diamond” nelle orecchie.
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10 ottobre 2010
Titolo e finale
C’è questo mio problema dei titoli e dei finali.
Io non ricordo i titoli. E non ricordo i finali.
Comunque, la questione fondamentale era quella dei titoli e dei finali.
Io l’avevo visto, quel film. Ricordavo di averlo visto. Magari quando ero piccolo, in una di quelle videocassette registrate 20 anni fa da Canale 5, che guardavo principalmente per le puntate di Striscia la Notizia all’inizio della registrazione e per la musichetta dello spot della Fiesta Ferrero, che adoravo.
Io ricordavo le prime scene di quel film. Lei che cammina con la sua borsetta gialla e con quelle meravigliose scarpe anni ’50, 8 cm di tacco o giù di lì.
Come ci si fa a non ricordare del finale di un film di Hitchcock?
Chè poi questa cosa del non ricordare i finali un lato positivo ce l’ha. Ho rivisto 2001, Odissea nello Spazio per 3 volte, ognuna come fosse la prima, prima di leggere il libro. Perché sì, ok non ricordare i i finali. Ma quello di 2001 Odissea nello spazio si DEVE sapere.
Alla fine, rimarranno solo "Kodak moments". Slegati da tutto il resto.
E l’unica cosa importante, alla fine, è solo che ce ne siano stati tanti, di momenti memorabili.
E si sta parlando di tutto, eh. Ok, di libri. Ok, di film. Ma non solo.
Io non ricordo i titoli. E non ricordo i finali.
Oppure, un’altra cosa. Io non ricordo i nomi delle persone.
Avete presente quegli orribili momenti tipo “piacere, Marialaura”. “Piacere, Enrica”. “Piacere, Simone”. “Piacere, Rosamunda”.
Ecco, se doveste conoscermi dal vivo, se non ci siamo mai visti e dovete presentarmi ( e ve lo chiedo in ginocchio ), non pretendete che io ricordi il vostro nome.
Non ditemelo, piuttosto.
Preferisco sapere dove abbiate preso quella maglietta di Arancia Meccanica, o perché avete i capelli a zero, o cosa diavolo significhi quell’idiogramma tatuato sul vostro braccio sinistro.
Poi verrà il momento di sapere il vostro nome. Di cercare di memorizzarlo.
Comunque, la questione fondamentale era quella dei titoli e dei finali.
Libri, film. Ma non solo, eh.
Un po’ di tempo fa la professoressa di storia e filosofia, santa donna anche se permeata di un bigottismo lancinante, santa donna anche se per lei gli omosessuali sono “deviati” e “perversi”, santa donna anche se fissata con i suoi stupidi preconcetti e con Husserl, ci ha portato a vedere un film.
Bello, davvero bello. Hitchcock. Con Sean Connery. Con quella grandissima gnocca che era Tippi Hedren.
Io l’avevo visto, quel film. Ricordavo di averlo visto. Magari quando ero piccolo, in una di quelle videocassette registrate 20 anni fa da Canale 5, che guardavo principalmente per le puntate di Striscia la Notizia all’inizio della registrazione e per la musichetta dello spot della Fiesta Ferrero, che adoravo.
Io ricordavo le prime scene di quel film. Lei che cammina con la sua borsetta gialla e con quelle meravigliose scarpe anni ’50, 8 cm di tacco o giù di lì.
Alfredino mio bello che esce da una stanza d’albergo per alcuni fotogrammi.
La faccia da scemo del proprietario dell’albergo derubato e i suoi vergognosi commenti maschilisti, che però da bambino mi facevano ridere.
La faccia da scemo del proprietario dell’albergo derubato e i suoi vergognosi commenti maschilisti, che però da bambino mi facevano ridere.
Ma non avevo idea di come finisse.
Come ci si fa a non ricordare del finale di un film di Hitchcock?
Tutto si basa sul finale, nei film di Hitchcock.
E invece no. Niente. Nemmeno un vago ricordo. Niente. Di. Niente.
Chè poi questa cosa del non ricordare i finali un lato positivo ce l’ha. Ho rivisto 2001, Odissea nello Spazio per 3 volte, ognuna come fosse la prima, prima di leggere il libro. Perché sì, ok non ricordare i i finali. Ma quello di 2001 Odissea nello spazio si DEVE sapere.
E ne ha altri, di lati positivi. Anche non parlando di libri o di film.
Perché, davvero, alla fine conta poco che titolo diamo a una storia. Come si concluda.
E forse non è un caso se ricordiamo più altre scene che l’epilogo.
E forse non è un caso se ricordiamo più altre scene che l’epilogo.
Non è un caso se sarà quel particolare momento a tornarci in mente e se rideremo di quella particolare battuta, senza più sapere cosa abbia finito per portare.
Alla fine, rimarranno solo "Kodak moments". Slegati da tutto il resto.
E l’unica cosa importante, alla fine, è solo che ce ne siano stati tanti, di momenti memorabili.
22 agosto 2010
I must
Io odio i compiti in classe. Le interrogazioni.
"Sai che novità", direbbero i miei 3 lettori.
Avete ragione anche voi, ma una piccola parentesi ci vuole.
Amo la scuola, stare insieme a 24 ragazzi della mia stessa età per mezza giornata, apprendere, discutere.
Crescere, sotto un certo punto di vista.
Però.
Però ci sono i compiti in classe. Le interrogazioni.
Le verifiche.
Perchè il concetto è sempre quello. Dobbiamo controllare come cresci, cosa apprendi. Dobbiamo starti dietro.
Mica possiamo lasciarti credere che la vita poi sia così facile.
Mica devi crescere.
Devi studiare. Inglobare concetti e regolette, saperli applicare.
Odio i compiti in classe, le interrogazioni, perchè a volte mi fanno odiare qualcosa che amo.
E sono molti, i professori a pensarla come me.
Alcuni te lo fanno notare, altri no.
Alcuni concepiscono il momento della verifica come un ripasso.
Altri se ne fregano.
Devono farlo. Lo fanno. Ma si vede che la loro mente propenderebbe verso altro.
Verso lo stare con 25 ragazzi più giovani per cambiarli. Per migliorarli. Per discutere.
Per farli crescere, sotto un certo punto di vista.
Comunque.
Ci sono diversi gradi di odio per le verifiche.
Vuoi mettere un tema d'italiano con un' interrogazione di storia?
Una versione di latino con biologia?
Un colloquio di filosofia con un compito d'inglese?
I compiti d'inglese.
Eh, sì. I compiti d'inglese.
Perchè all'odio verso il compito in sè, lì si aggiunge anche l'odio verso il modo in cui sono insegnate le lingue.
Perchè a scuola non si insegna l'inglese, ma - se tutto va bene - le regolette dell'inglese.
Si dice "if I were", non "if I was". E se dici "if I was" è l'errore più grande della tua vita.
Bullshit.
Sì, ok. In teoria la forma corretta è "if I were".
Ma solo le vecchiette di 65 anni, in testa classico cappello piume-frutta, vestitino arzigogolato sixty-five pounds Harrods, effettivamente lo dicono.
O tutte quelle inutili differenze tra present perfect e present perfect progressive. Chè "I have lived" o "I have been living" non significa la stessa cosa, secondo loro.
In ogni caso.
C'è una regoletta inutile dell'inglese che, nonostante tutto, mi piace.
Ed è quella relativa al "dovere".
Must.
Have to.
Perchè, secondo le professoresse d'inglese delle medie e qualche omino formato "accademia della crusca oxfordiana", c'è una differenza.
"Must" indica un dovere morale. "Have to" qualcosa di imposto dall'esterno.
Ecco, questa cosa mi ha sempre affascinato.
Perchè molto probabilmente, se in inglese non ci fosse questa sfumatura, io non c'avrei pensato.
Che ci sono due forme di "dovere", intendo.
Che ci sono i "must" e gli "have to".
E che dovremmo cercare di riempire la nostra vita di "must". Di "I must".
Rifiutare tutti gli "have to" del caso, e concentrarsi solo su ciò che riteniamo giusto. Su ciò che dobbiamo fare perchè sentiamo di dover fare.
And fuck all the bloody rest, aggiungerebbero i britannici.
(Ma non la prof. delle medie, ovviamente.)
"Sai che novità", direbbero i miei 3 lettori.
Avete ragione anche voi, ma una piccola parentesi ci vuole.
Amo la scuola, stare insieme a 24 ragazzi della mia stessa età per mezza giornata, apprendere, discutere.
Crescere, sotto un certo punto di vista.
Però.
Però ci sono i compiti in classe. Le interrogazioni.
Le verifiche.
Perchè il concetto è sempre quello. Dobbiamo controllare come cresci, cosa apprendi. Dobbiamo starti dietro.
Mica possiamo lasciarti credere che la vita poi sia così facile.
Mica devi crescere.
Devi studiare. Inglobare concetti e regolette, saperli applicare.
Odio i compiti in classe, le interrogazioni, perchè a volte mi fanno odiare qualcosa che amo.
E sono molti, i professori a pensarla come me.
Alcuni te lo fanno notare, altri no.
Alcuni concepiscono il momento della verifica come un ripasso.
Altri se ne fregano.
Devono farlo. Lo fanno. Ma si vede che la loro mente propenderebbe verso altro.
Verso lo stare con 25 ragazzi più giovani per cambiarli. Per migliorarli. Per discutere.
Per farli crescere, sotto un certo punto di vista.
Comunque.
Ci sono diversi gradi di odio per le verifiche.
Vuoi mettere un tema d'italiano con un' interrogazione di storia?
Una versione di latino con biologia?
Un colloquio di filosofia con un compito d'inglese?
I compiti d'inglese.
Eh, sì. I compiti d'inglese.
Perchè all'odio verso il compito in sè, lì si aggiunge anche l'odio verso il modo in cui sono insegnate le lingue.
Perchè a scuola non si insegna l'inglese, ma - se tutto va bene - le regolette dell'inglese.
Si dice "if I were", non "if I was". E se dici "if I was" è l'errore più grande della tua vita.
Bullshit.
Sì, ok. In teoria la forma corretta è "if I were".
Ma solo le vecchiette di 65 anni, in testa classico cappello piume-frutta, vestitino arzigogolato sixty-five pounds Harrods, effettivamente lo dicono.
O tutte quelle inutili differenze tra present perfect e present perfect progressive. Chè "I have lived" o "I have been living" non significa la stessa cosa, secondo loro.
In ogni caso.
C'è una regoletta inutile dell'inglese che, nonostante tutto, mi piace.
Ed è quella relativa al "dovere".
Must.
Have to.
Perchè, secondo le professoresse d'inglese delle medie e qualche omino formato "accademia della crusca oxfordiana", c'è una differenza.
"Must" indica un dovere morale. "Have to" qualcosa di imposto dall'esterno.
Ecco, questa cosa mi ha sempre affascinato.
Perchè molto probabilmente, se in inglese non ci fosse questa sfumatura, io non c'avrei pensato.
Che ci sono due forme di "dovere", intendo.
Che ci sono i "must" e gli "have to".
E che dovremmo cercare di riempire la nostra vita di "must". Di "I must".
Rifiutare tutti gli "have to" del caso, e concentrarsi solo su ciò che riteniamo giusto. Su ciò che dobbiamo fare perchè sentiamo di dover fare.
And fuck all the bloody rest, aggiungerebbero i britannici.
(Ma non la prof. delle medie, ovviamente.)
1 agosto 2010
Ma tanto buoni
Ecco.
Il fatto è che si può essere tanto buonisti. Tanto.
Anzi, meglio.
Si può essere tanto buoni. Proprio buoni.
Di quel buono che doni ogni anno un quinto dei tuoi guadagni ad Emergency, e che tutti quanti ti guardano e dicono "guarda che persona buona".
Si può essere calmi, sereni, pacati.
Si può star zitti di fronti alle ingiustizie perchè si ama il prossimo tuo come te stesso. Anche quello che ti frega.
Si può essere talmente buoni da non volere nemmeno capire quando e se lo stai prendendo proprio in quel posto lì.
Si può essere così. Si può essere meglio di Madre Teresa e Gandhi messi insieme.
Ma quando stai leggendo. E Ti fermi un attimo. E poggi il libro sulla poltrona. E metti il segnalibro senza guardare la pagina.
Ritorni. E trovi il libro a terra e il segnalibro a due metri.
Ti. Incazzi.
E hai voglia a dire Gandhi.
Il fatto è che si può essere tanto buonisti. Tanto.
Anzi, meglio.
Si può essere tanto buoni. Proprio buoni.
Di quel buono che doni ogni anno un quinto dei tuoi guadagni ad Emergency, e che tutti quanti ti guardano e dicono "guarda che persona buona".
Si può essere calmi, sereni, pacati.
Si può star zitti di fronti alle ingiustizie perchè si ama il prossimo tuo come te stesso. Anche quello che ti frega.
Si può essere talmente buoni da non volere nemmeno capire quando e se lo stai prendendo proprio in quel posto lì.
Si può essere così. Si può essere meglio di Madre Teresa e Gandhi messi insieme.
Ma quando stai leggendo. E Ti fermi un attimo. E poggi il libro sulla poltrona. E metti il segnalibro senza guardare la pagina.
Ritorni. E trovi il libro a terra e il segnalibro a due metri.
Ti. Incazzi.
E hai voglia a dire Gandhi.
20 luglio 2010
Pomeriggi
Sentirsi parte di qualcosa.
Qualcosa di non molto importante, magari. Stupido, insignificante.
Aiutare, essere aiutato, passare il tempo, conoscere gente.
Condividere.
Perchè, alla fine, fare qualcosa è sempre meglio che starsene con le mani in mano.
Qualcosa di non molto importante, magari. Stupido, insignificante.
Aiutare, essere aiutato, passare il tempo, conoscere gente.
Condividere.
Perchè, alla fine, fare qualcosa è sempre meglio che starsene con le mani in mano.
6 giugno 2010
Può cantarti il sottoscritto ( op.cit )
Della gente
di backstreet boys andini
di argomenti di discussione discutibili
di sconosciuti che ti prendono per qualcun altro
di dolcetti accettati controvoglia
di bimbi cecchini e di lattine ammaccate
di battaglie perse ben lontano dall'artiglieria
di cd vuoti, cd usati, cd rubati
di folle assiepate e spazi vuoti
di Radiohead e di cosa diavolo ci faccio qui
di amicizie che in un altro mondo sarebbero più forti
di amicizie che forti già lo sono, e non se ne vede il motivo
di preparativi
di compleanni e concerti
di cover, di pezzi nuovi, di Sanremo
di urletti del Menga
di zuccheri filati, di cipolle fritte, di kebab
dell'odore della folla
di appuntamenti rinviati
di nomi dimenticati
di date ricorrenti e momenti irripetibili
di limonate e lemon-bar
di messaggi ricevuti e bozze mai inviate
di scelte.
Perchè se devo scegliere di fare una cosa o un'altra, io decido.
Ci metto tempo, ma decido.
Ma se le mie opzioni sono fare qualcosa oppure stare fermo...
di backstreet boys andini
di argomenti di discussione discutibili
di sconosciuti che ti prendono per qualcun altro
di dolcetti accettati controvoglia
di bimbi cecchini e di lattine ammaccate
di battaglie perse ben lontano dall'artiglieria
di cd vuoti, cd usati, cd rubati
di folle assiepate e spazi vuoti
di Radiohead e di cosa diavolo ci faccio qui
di amicizie che in un altro mondo sarebbero più forti
di amicizie che forti già lo sono, e non se ne vede il motivo
di preparativi
di compleanni e concerti
di cover, di pezzi nuovi, di Sanremo
di urletti del Menga
di zuccheri filati, di cipolle fritte, di kebab
dell'odore della folla
di appuntamenti rinviati
di nomi dimenticati
di date ricorrenti e momenti irripetibili
di limonate e lemon-bar
di messaggi ricevuti e bozze mai inviate
di scelte.
Perchè se devo scegliere di fare una cosa o un'altra, io decido.
Ci metto tempo, ma decido.
Ma se le mie opzioni sono fare qualcosa oppure stare fermo...
9 maggio 2010
Punteggistica applicata
Oltre a godere per l'ennesima botta di fortuna di un Alonso che, comunque vada, lascerà il mondiale in più esperte o -all'occorrenza- più giovani mani, la gara di oggi mi ha fatto riflettere sul sistema di punteggio, che assegna 25 punti al primo, 18 al secondo, 15 al terzo e così via.
Perchè l'impressione è che, a causa di questo - secondo me - ingiustificato cambiamento, non cambi davvero mai niente, in classifica.
Sono tutti lì in una 20ina di punti, recuperabilissimi in una sola gara, grazie ai 25 assegnati al primo classificato.
Button 70, Alonso 67, Vettel 60, Webber 53, Rosberg 50, Hamilton 49, Massa 49.
Tutti potenzialmente capolisti, dopo la prossima gara, con Kubica - ora a 44 - che potrebbe andare a un solo punticino dalla vetta.
Allora mi sono chiesto come sarebbe la situazione con il vecchio 10-8-6 , e con l'ancora più anziano 10-6-4.
Se ho fatto bene i conti, dovrebbe essere più o meno così:
10-8-6: Alonso 28, Button 27, Vettel 24, Webber 20, Hamilton 20, Rosberg 20, Massa 19, Kubica 18
10-6-4: Alonso 22, Button 22, Vettel 18, Webber 16, Hamilton 12, Rosberg 12, Massa 11, Kubica 11
Niente da fare, quindi.
Spiace dirlo, ma non è colpa del punteggio.
E' che in questo campionato non si capisce veramente una mazza.
Perchè l'impressione è che, a causa di questo - secondo me - ingiustificato cambiamento, non cambi davvero mai niente, in classifica.
Sono tutti lì in una 20ina di punti, recuperabilissimi in una sola gara, grazie ai 25 assegnati al primo classificato.
Button 70, Alonso 67, Vettel 60, Webber 53, Rosberg 50, Hamilton 49, Massa 49.
Tutti potenzialmente capolisti, dopo la prossima gara, con Kubica - ora a 44 - che potrebbe andare a un solo punticino dalla vetta.
Allora mi sono chiesto come sarebbe la situazione con il vecchio 10-8-6 , e con l'ancora più anziano 10-6-4.
Se ho fatto bene i conti, dovrebbe essere più o meno così:
10-8-6: Alonso 28, Button 27, Vettel 24, Webber 20, Hamilton 20, Rosberg 20, Massa 19, Kubica 18
10-6-4: Alonso 22, Button 22, Vettel 18, Webber 16, Hamilton 12, Rosberg 12, Massa 11, Kubica 11
Niente da fare, quindi.
Spiace dirlo, ma non è colpa del punteggio.
E' che in questo campionato non si capisce veramente una mazza.
8 maggio 2010
De secreto conflictu
[Post lungo, molto lungo]
"Ehi!"
"Ehi!"
"Ehi..."
"E tu chi diavolo sei?""Ma come, non mi riconosci più? Sono Tyler... Mi hai sempre chiamato così, almeno..."
"Io non ti conosco. Come sei entrato?""Ho le chiavi. Le ho sempre avute..."
"Ah, sì, ora forse mi ricordo di te. Il vecchio inquilino. Perchè ti sei tenuto le chiavi?""Non sono l'inquilino precedente. O forse, in un certo senso, lo sono. Io sono te. Una parte di te. La parte di te che va alle manifestazioni, che si indigna, che si mobilita. La parte depressa e deprimente, la parte odiosa e odiata. La parte che hai scacciato. La parte che credi di aver scacciato."
"Sì, so chi sei. Fingevo di non riconoscerti per non affrontarti. Vivo meglio, quando non ti affronto." "Lo so..."
"Era un po' che non tornavi, in ogni caso.""Sono tornato per ieri. Ricordi? Sei stato mezz'ora a parlare di Lega e massimi sistemi con quella ragazza. Ti ho visto, curvo sulla tastiera. Non sapevi cosa dire, vero? Mouse in mano, occhi impallati, ripetevi le solite stronzate che senti in giro, cercando di darti un tono. Con il vecchio trucco del "sarò banale, ma devo dirti che" per poi dire una semplice banalità. Ti ho osservato, ieri sera. Ti ho osservato molto bene."
"Non stavo cercando di darmi un tono. E' solo che pensavo.""A cosa?"
"Il fatto è che usavo le stesse argomentazioni che mi sentivo ripetere un po' di tempo fa, quando parlavo con qualcuno. Sono cambiato, forse. Sono voluto cambiare. Ed è meglio così, dopotutto.""Non sei cambiato... Mi hai solo temporaneamente scacciato."
"Sì, certo che ti ho scacciato. Convinciti che sia solo temporaneamente, se ti fa stare meglio.""Ma perchè fai così?"
"Ma le hai lette quelle stronzate che scrivevamo insieme? Quegli orrendi puntini sospensivi. Sapevi solo aggiungere puntini sospensivi ovunque. Brr, da uccidersi.""Non sono orrendi... Sono solo... Sono tuoi..."
"No, eh. Non ricominciamo con i puntini. Basta puntini. Li odio, i puntini.""Ma guardati... Pensi di essere tanto migliore di me, con quelle ridicole frasette da 3 parole..."
"SONO migliore di te.""E allora perchè ieri non sapevi cosa dire?"
"Ma perchè lei aveva bisogno solo di qualcuno con cui sfogarsi. Non era un vero e proprio dialogo.""Ma smettila.
"Dimmelo tu, allora" "Sì che te lo dico. Rivedevi te stesso in ciò che lei diceva... Rivedevi me. Sì, era la versione più matura, più acculturata, più intelligente e più sopportabile di me. Ma ieri, per te, lei ero io... E leggendola ti accorgevi di quanto avesse ragione."
"No, Tyler. Non aveva ragione. Non ce la faccio più, con i "non dovrebbe essere così", con i "vorrei ma non posso", con gli inutili idealismi. Non ce la faccio più, con i mulini a vento. Ne abbiamo già parlato, noi due. E c'è un motivo, se ti ho scacciato quasi definitivamente.""Hai detto bene: "quasi". Ma guardati allo specchio... I capelli, le scarpe da ginnastica mezze rotte."
"Ma che c'entra...""C'entra, c'entra. Tu credi di avermi scacciato ma io sono te, e tu sei me."
"Sì, certo. And she's me, and we are all together.""Citare i Beatles per prendermi in giro non ti aiuterà"
"Senti, Tyler. Ascoltami bene, chè è l'ultima volta che ti dico queste cose. Sei un bambino, poco cresciuto e inadatto al mondo. Tu sei quello della distruzione ad ogni costo, quello del "Fischia il vento" alle manifestazioni per la scuola. E a me non piaci. Io sto migliorando. Ci sto provando, almeno. E' ovvio che non posso cambiare in un solo colpo. Ma ci sto provando, ti assicuro.""Cosa intendi per 'migliorare'?"
"Sto crescendo. Ma cosa pensi, di poter cambiare il mondo a 16 anni? Cosa pensi, vuoi davvero aspettare che tutti la pensino come te per fare qualcosa?""Non penso questo..."
"Sì, in realtà sì. E te ne convinci solo per avere una scusa per non fare nulla""Non mi sembra che tu stia facendo tanto..."
"Ok, hai ragione. Magari sono un po' ipocrita. Devo migliorare, in questo senso. Ma di cosa si parlava, ieri?""Parlavamo della Lega, ieri..."
"Sì, appunto. La Lega. Dobbiamo uscire dai preconcetti, urlare le nostre idee. Metterli in ridicolo sul loro campo: cominciamo a dire che sono pessimi amministratori, oltre che xenofobi razzisti. Non ridicolizziamo, costruiamo un progetto alternativo. E poi vediamo se si riesce o meno a cambiare qualcosa.""Il problema non è la Lega..."
"No, non lo è. E' una questione di mentalità, sotto ogni punto di vista. E la tua non mi piace. Vattene." "Tu vorresti essere me, in realtà..."
"No, no. Ti sbagli. Assolutamente no. Non voglio essere te, sono stato te e voglio uscirne. Ti ho detto di andartene.""Marco..."
"Vattene. Che vuoi ancora?""Tu mi ami, non è vero?"
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1 maggio 2010
The importance of seeing Ernests
Il tennis è uno sport strano.
Fateci caso.
Vi capiterà di sentire 10 commentatori al giorno che vi diranno che il calcio è una delle più belle metafore della vita, o che ogni secondo - nel basket - è il secondo più importante , o che andare allo stadio e assistere a una partita ha la stessa funzione catartico-dionisiaca di una tragedia di Sofocle o Euripide.
Li avete sentiti, vero?
Beh, del tennis nessuno dice nulla.
Perchè il tennis, tutto sommato, ai più sta sulle palle.
Un po' per il sistema di punteggio così complicato, un po' perchè è fondamentalmente uno sport da fighetti, con quelle magliette azzurrine e linde e i pantaloncini rigorosamente bianchi, un po' perchè alle Olimpiadi nessuno se ne ricorda, un po' perchè da sempre quelle ridicole racchette e quel "poff, poff" sono i segni di riconoscimenti di una classe dirigente incompetente e con la puzza sotto il naso.
Ma c'è un altro motivo per cui il tennis sta sulle palle, ai più, ed è questo.
Nel tennis non puoi difendere.
Sei avanti 1-0 5-0? Non importa. Non puoi pensare di aver già vinto, assolutamente. Certamente avere un set di vantaggio è meglio rispetto a dover recuperare, ma è completamente diverso da avere cinque gol più dell'avversario e 10 minuti da giocare o 20 punti e 3 minuti. Nel tennis, nessun ragionamento in chiave puramente conservativa può essere adottato. Niente catenaccio, niente aspettare i giri dell'orologio. Devi giocare, fare i tuoi punti, rischiare per arrivare a vedere quel maledetto 6 sul tuo tabellone.
E' per questo che il tennis non è una metafora della vita. Il tennis è una metafora di quello che credi sia la vita a 7 o 8 anni. E quando capisci che, fuori dalla terra rossa, il più delle volte conviene stare zitto, e guardare l'orologio e giocare in difesa, allora arrivi ad odiare lo sport, quello sport che credevi ti avesse insegnato così tanto.
Nonostante i commentatori, comunque, e nonostante la metafora della vita, i pantaloncini lindi e le magliette azzurrine, nonostante quelle ridicole racchette, nonostante tutto questo e nonostante il concertone, io oggi ho visto la partita.
E quel lettone lì - che giocava come vive un bambino di 7 anni, ignaro della legge del più forte e dell'ingiustizia del "vinca il migliore" - a me è entrato nel cuore.
Fateci caso.
Vi capiterà di sentire 10 commentatori al giorno che vi diranno che il calcio è una delle più belle metafore della vita, o che ogni secondo - nel basket - è il secondo più importante , o che andare allo stadio e assistere a una partita ha la stessa funzione catartico-dionisiaca di una tragedia di Sofocle o Euripide.
Li avete sentiti, vero?
Beh, del tennis nessuno dice nulla.
Perchè il tennis, tutto sommato, ai più sta sulle palle.
Un po' per il sistema di punteggio così complicato, un po' perchè è fondamentalmente uno sport da fighetti, con quelle magliette azzurrine e linde e i pantaloncini rigorosamente bianchi, un po' perchè alle Olimpiadi nessuno se ne ricorda, un po' perchè da sempre quelle ridicole racchette e quel "poff, poff" sono i segni di riconoscimenti di una classe dirigente incompetente e con la puzza sotto il naso.
Ma c'è un altro motivo per cui il tennis sta sulle palle, ai più, ed è questo.
Nel tennis non puoi difendere.
Sei avanti 1-0 5-0? Non importa. Non puoi pensare di aver già vinto, assolutamente. Certamente avere un set di vantaggio è meglio rispetto a dover recuperare, ma è completamente diverso da avere cinque gol più dell'avversario e 10 minuti da giocare o 20 punti e 3 minuti. Nel tennis, nessun ragionamento in chiave puramente conservativa può essere adottato. Niente catenaccio, niente aspettare i giri dell'orologio. Devi giocare, fare i tuoi punti, rischiare per arrivare a vedere quel maledetto 6 sul tuo tabellone.
E' per questo che il tennis non è una metafora della vita. Il tennis è una metafora di quello che credi sia la vita a 7 o 8 anni. E quando capisci che, fuori dalla terra rossa, il più delle volte conviene stare zitto, e guardare l'orologio e giocare in difesa, allora arrivi ad odiare lo sport, quello sport che credevi ti avesse insegnato così tanto.
Nonostante i commentatori, comunque, e nonostante la metafora della vita, i pantaloncini lindi e le magliette azzurrine, nonostante quelle ridicole racchette, nonostante tutto questo e nonostante il concertone, io oggi ho visto la partita.
E quel lettone lì - che giocava come vive un bambino di 7 anni, ignaro della legge del più forte e dell'ingiustizia del "vinca il migliore" - a me è entrato nel cuore.
23 aprile 2010
Chè l'anafora è il mio forte ( cit. )
Tu che mi cerchi
Tu che mi conosci
Tu che di queste cose te ne intendi
Tu che il sabato è triste
Tu che costruisci muri immaginari
Tu che in qualche modo ci tieni
Tu che ti domandi perchè stia sempre in casa
Tu che mi chiedi come si chiama
Tu che mi credi un genio
Tu che mi credi un debole
Tu che mi ignori
Tu che non hai capito nulla
Tu che non hai mai saputo nulla
Tu che mi spii, tu che mi indaghi, tu che mi frughi
Tu che ti fidi, tu che non parli
Tu che mi fai sentire in colpa. Perennemente alla ricerca.
Tu, insomma.
Tu. Che cosa vuoi da me?
Tu che mi conosci
Tu che di queste cose te ne intendi
Tu che il sabato è triste
Tu che costruisci muri immaginari
Tu che in qualche modo ci tieni
Tu che ti domandi perchè stia sempre in casa
Tu che mi chiedi come si chiama
Tu che mi credi un genio
Tu che mi credi un debole
Tu che mi ignori
Tu che non hai capito nulla
Tu che non hai mai saputo nulla
Tu che mi spii, tu che mi indaghi, tu che mi frughi
Tu che ti fidi, tu che non parli
Tu che mi fai sentire in colpa. Perennemente alla ricerca.
Tu, insomma.
Tu. Che cosa vuoi da me?
15 aprile 2010
And still you waste
E' che certe volte ti capita di stare bene.
Il tempo di una serata, di un film, di un'ora di latino, di uno stupido commento a una stupida notizia trovata su un qualche stupido sito.
Stai bene.
O almeno, meglio.
Trovi un briciolo di senso nell'inseguimento ad un tempo che ti rendi conto di stare perdendo.
Ti capita di stare bene - dicevo - e di non avere la minima intenzione di cambiare, di fare, di agire.
Arrivi a pensare che - in un certo senso - quell'inseguimento abbia più valore del tempo stesso.
Pensi di stare migliorando, che il buio stia finendo, che la luce sia davvero più vicina di quanto avessi pensato fino a pochi istanti prima.
Il momento - quel momento - prima o poi arriverà.
Poi te ne accorgi.
Ti guardi dentro, e nello stesso tempo ti guardi indietro.
Ti riempi la testa di congetture, di supposizioni, di sovrastrutture. Di "avrebbe dovuto", "sarebbe potuto", "avrei voluto".
E ti svegli. Ti sveglia.
Ti guardi indietro, e capisci che forse il momento - quel momento - era già arrivato, e semplicemente non l'hai saputo sfruttare.
O forse - è ancora più probabile - il momento giusto non esiste.
Esistono momenti sbagliati, quelli sì.
Ma il momento giusto non esiste. E avresti dovuto capirlo prima.
Il tempo di una serata, di un film, di un'ora di latino, di uno stupido commento a una stupida notizia trovata su un qualche stupido sito.
Stai bene.
O almeno, meglio.
Trovi un briciolo di senso nell'inseguimento ad un tempo che ti rendi conto di stare perdendo.
Ti capita di stare bene - dicevo - e di non avere la minima intenzione di cambiare, di fare, di agire.
Arrivi a pensare che - in un certo senso - quell'inseguimento abbia più valore del tempo stesso.
Pensi di stare migliorando, che il buio stia finendo, che la luce sia davvero più vicina di quanto avessi pensato fino a pochi istanti prima.
Il momento - quel momento - prima o poi arriverà.
Poi te ne accorgi.
Ti guardi dentro, e nello stesso tempo ti guardi indietro.
Ti riempi la testa di congetture, di supposizioni, di sovrastrutture. Di "avrebbe dovuto", "sarebbe potuto", "avrei voluto".
E ti svegli. Ti sveglia.
Ti guardi indietro, e capisci che forse il momento - quel momento - era già arrivato, e semplicemente non l'hai saputo sfruttare.
O forse - è ancora più probabile - il momento giusto non esiste.
Esistono momenti sbagliati, quelli sì.
Ma il momento giusto non esiste. E avresti dovuto capirlo prima.
7 aprile 2010
Una volta aiutava
Paura di crescere
Paura di restare piccolo ancora per troppo tempo
Paura per quella vena troppo in evidenza sulla mano
Paura di essere ripetitivo
Paura che i miei sogni si avverino
Paura di non essere capito
Paura di essere banale
Paura di parlare troppo
Paura di parlare poco
Paura di essere troppo serio
Paura di restare solo
Paura di essere una goccia in un oceano
Paura di essere mediocre
Paura dell'ascensore
Paura del buio
Paura di non sapere nulla di storia
Paura delle ragazze
Paura dell'acqua
Paura delle docce fredde
Paura di andar via
Paura di rimanere
Paura di fare quello che vogliono loro
Paura di fare quello che voglio io
Paura di essere brutto
Paura di tagliare i capelli
Paura di cambiare abitudini
Paura di restare ancorato
Paura dei compiti in classe
Paura di sbagliare
Paura di sbagliare
Paura di provarci
Paura di essere preso per il culo
Paura di perdere il portafogli
Paura di non poter mantenere quello che i tuoi hanno costruito
Paura di non saper fare
Paura di sapere cosa fare
Paura di deludere
Paura dei sorpassi in galleria
Paura del silenzio
Paura di parlare
Paura dei funerali
Paura delle condoglianze
Paura di ricordare
Paura di dimenticare
Paura di ridere
Paura di piangere
Paura delle mani sudate
Paura di un'altra pallonata in testa
Paura di lasciarsi andare
Paura di sapere con chi sfogarti e non poterlo fare
Paura che lei parta
Paura che lei resti
Paura di sfiorarla
Paura che lei parta
Paura che lei resti
Paura di sfiorarla
Paura di copiare
Paura delle tradizioni
Paura delle certezze
Paura di dissentire
Paura di essermi perso troppe cose
Paura di essere tutto fumo
Paura dell'aria inquinata
Paura dell'effetto serra
Paura dei terremoti, degli incendi, dei fulmini
Paura che nessuno mi senta
Paura che nessuno mi ascolti
Paura di essere criticato
Paura di essere insopportabile
Paura dei vecchi
Paura dei bambini
Paura dei bambini
Paura degli stronzi
Paura di chi ammiri
Paura che qualcuno mi tolga il futuro da sotto i piedi
Paura di avere un figlio, prima o poi
Paura di essere servile
Paura di diventare schiavo
Paura di essermi montato la testa
Paura che tutto questo sia solo una menata. Una grandissima menata.
Paura di aver solo perso altri 20 minuti.
2 aprile 2010
Pensiero profondo della sera
Il mondo si divide tra chi ha tante idee ma non sa metterle a frutto e chi vorrebbe averne mezza, per cercare di combinare qualcosa.
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pensiero profondo
Orientamento
E così accade.
Che ti trovi scoperto e indifeso. Esposto alle domande di chi tiene a te più di quanto in questo momento vorresti.
Costretto a spiegare che quei fogli di carta che tieni in mano contano meno di un termosifone nel Sahara.
Costretto a esporre le poche e confuse idee sul tuo futuro, quando invece avresti voluto solo sognare ancora un po', rimuginandoci su.
Avresti voluto lasciarli qualche mese in più nel loro mirabolante progettino su di te.
Potresti essere medico, primario in qualche ospedale ammerigano.
Che ne dici dell'ingegneria elettronica? Mai visto un ingegnere disoccupato in tutta la mia vita.
Hai mai pensato alle biotecnologie?
No, non c'ho mai pensato. Perchè penso di avere già deciso.
E - lo giuro - apprezzo molto i vostri consigli e le vostre preoccupazioni, ma - ripeto - penso di avere già deciso.
Nonostante tutto, ho già deciso.
Giurisprudenza. E così sia.
Che ti trovi scoperto e indifeso. Esposto alle domande di chi tiene a te più di quanto in questo momento vorresti.
Costretto a spiegare che quei fogli di carta che tieni in mano contano meno di un termosifone nel Sahara.
Costretto a esporre le poche e confuse idee sul tuo futuro, quando invece avresti voluto solo sognare ancora un po', rimuginandoci su.
Avresti voluto lasciarli qualche mese in più nel loro mirabolante progettino su di te.
Potresti essere medico, primario in qualche ospedale ammerigano.
Che ne dici dell'ingegneria elettronica? Mai visto un ingegnere disoccupato in tutta la mia vita.
Hai mai pensato alle biotecnologie?
No, non c'ho mai pensato. Perchè penso di avere già deciso.
E - lo giuro - apprezzo molto i vostri consigli e le vostre preoccupazioni, ma - ripeto - penso di avere già deciso.
Nonostante tutto, ho già deciso.
Giurisprudenza. E così sia.
28 marzo 2010
Illogica allegria
Perchè alla fine dimentichi tutto.
Il tizio che si dimentica di salutarti da dieci anni, ma sa chiamarti al telefono per sapere come si vedono le partite su internet.
Tua madre e i suoi commentini sul "colorito linguaggio" delle Iene di Tarantino.
La batosta che potrebbero rifilarci in Piemonte e in Puglia.
Tua cugina e le sue improbabili traduzioni dall'Economist.
La tua poca voglia di parlare, di leggere, di scrivere, di commentare, di pensare.
Le tue stanche abitudini.
I tuoi amici e le loro improbabili prese di posizione.
Il tuo mal di testa.
Le piccolezze, i problemucci, le stupide preoccupazioni.
Sì, si dimentica tutto.
Basta un panino, o una faccia da scemo a un'odiosa macchina fotografica, o una sillaba impronunciabile, o un angelo azzurro. Forse non uno solo. Perchè di angeli, adesso, ne stai contando almeno tre.
E nonostante gli incontri, nonostante i compleanni, nonostante i mercoledì che si avvicinano, nonostante gli obblighi e le circostanze, nonostante le risate sguaiate degli altri lì fuori, nonostante i tuoi enormi limiti.
Nonostante tutto, alla fine ti basta un sorriso.
E stai bene.
Proprio ora. Proprio qui.
Il tizio che si dimentica di salutarti da dieci anni, ma sa chiamarti al telefono per sapere come si vedono le partite su internet.
Tua madre e i suoi commentini sul "colorito linguaggio" delle Iene di Tarantino.
La batosta che potrebbero rifilarci in Piemonte e in Puglia.
Tua cugina e le sue improbabili traduzioni dall'Economist.
La tua poca voglia di parlare, di leggere, di scrivere, di commentare, di pensare.
Le tue stanche abitudini.
I tuoi amici e le loro improbabili prese di posizione.
Il tuo mal di testa.
Le piccolezze, i problemucci, le stupide preoccupazioni.
Sì, si dimentica tutto.
Basta un panino, o una faccia da scemo a un'odiosa macchina fotografica, o una sillaba impronunciabile, o un angelo azzurro. Forse non uno solo. Perchè di angeli, adesso, ne stai contando almeno tre.
E nonostante gli incontri, nonostante i compleanni, nonostante i mercoledì che si avvicinano, nonostante gli obblighi e le circostanze, nonostante le risate sguaiate degli altri lì fuori, nonostante i tuoi enormi limiti.
Nonostante tutto, alla fine ti basta un sorriso.
E stai bene.
Proprio ora. Proprio qui.
22 marzo 2010
Into flames
Guardare l'orologio e sperare che finisca presto.
Rimanere solo, alle 8 meno un quarto, davanti a una stupida scuola che cerca di insegnare una stupida lingua che probabilmente non si imparerà mai.
Annoiarsi per qualunque cosa.
Parlare solo ed esclusivamente di se stessi.
Aspettare che succeda, e che gli altri lo facciano succedere.
Ritrovarsi a piangere. Like a rolling river, all the way down the telegraph road.
E non aver nemmeno più voglia di odiare.
Male di vivere, lo chiamerebbe Lucrezio. Spleen, qualcun altro.
Forse è solo l'abitudine, che non mi fa stare tanto bene.
Magari dovrei tagliarmi i capelli.
Rimanere solo, alle 8 meno un quarto, davanti a una stupida scuola che cerca di insegnare una stupida lingua che probabilmente non si imparerà mai.
Annoiarsi per qualunque cosa.
Parlare solo ed esclusivamente di se stessi.
Aspettare che succeda, e che gli altri lo facciano succedere.
Ritrovarsi a piangere. Like a rolling river, all the way down the telegraph road.
E non aver nemmeno più voglia di odiare.
Male di vivere, lo chiamerebbe Lucrezio. Spleen, qualcun altro.
Forse è solo l'abitudine, che non mi fa stare tanto bene.
Magari dovrei tagliarmi i capelli.
18 marzo 2010
Testamento di un altro
1- Non avrai altro Dio all'infuori dell' "IO"
2- Non nominare il nome di Berlusconi invano
3- Onora il padre, onora la madre e onora anche i loro misfatti
4- Ricordati di santificare la feste. Non per altro, "è una tradizione"
5- Non dire falsa testimonianza, se non lautamente retribuito
6- Non commettere atti impuri, o quantomeno non dirlo in giro
7- Non uccidere, ma lascia morire di sete chi chiede di poter vedere il suo avvocato
8- Non rubare. Imbroglia, falsifica, ometti.
9- Non desiderare la donna di un altro. Ma se dovessi averla, chiamala puttana.
10- Non desiderare la roba di un altro. Limitati a togliergliela.
2- Non nominare il nome di Berlusconi invano
3- Onora il padre, onora la madre e onora anche i loro misfatti
4- Ricordati di santificare la feste. Non per altro, "è una tradizione"
5- Non dire falsa testimonianza, se non lautamente retribuito
6- Non commettere atti impuri, o quantomeno non dirlo in giro
7- Non uccidere, ma lascia morire di sete chi chiede di poter vedere il suo avvocato
8- Non rubare. Imbroglia, falsifica, ometti.
9- Non desiderare la donna di un altro. Ma se dovessi averla, chiamala puttana.
10- Non desiderare la roba di un altro. Limitati a togliergliela.
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