28 ottobre 2010

Pensiero stupido

La sinistra si divide tra chi vuole vedere Berlusconi in galera e chi lo vuole vedere sconfitto.

26 ottobre 2010

Chè doveva essere solo un Pensiero profondo, mezz'ora fa

E' una catena ininterrotta.
Ora. Il concetto che cercherò di spiegare non è tanto originale, me ne rendo conto.
Nè tanto originale nè tanto sensato, probabilmente.
Finirà per essere il solito flusso di coscienza moralistico di noi che suiggiovanid'oggiciscatarrosu.
Probabilmente.

Ma tant'è. E' il mio cazzo di blog e - almeno qui - faccio quel cazzo che mi pare.
C'entra Hegel, con il discorso che voglio fare. Forse c'entra anche Schopenhauer. C'entra Palahniuk che - fanculo - c'entra sempre.

Ecco. Il fatto è che ognuno di noi vuole essere quello che prende per culo.

Dove "prendere per culo" è concetto figurato, astratto, metaforico.
Dove "prendere per culo" non è tanto il "Filippone Filippò", o vaffanculeggiare l'unico leghista della scuola.
Non è "I libri del fascista vanno bruciati nonvendutinnèccatalogati", o l'urlare "eh, ti piace la nutella?" all'interrogazione del compagno di classe leggermente sovrappeso.

E' più vicino al concetto di "affermare la propria superiorità". Denunciare l'idiozia.
Apertamente o di spalle. Che l'altro sappia o no.

Piantare la bandiera del nostro pensiero sull'arido terreno dell'ottusa mentalità altrui.

Perchè, quando quella di storia si arrampica sugli specchi, cercando di inventarsi scuse assurde invece di ammettere che "sì, ragazzi, ho sbagliato, andiamo avanti". Quando quella di storia fa così, se lo merita. Se lo merita di essere irrisa.
E non per l'errore, eh. Chè alla fine chissenefrega se non ti ricordi chi sono gli slavofili e gli occidentalisti, ma dai cazzo, è ridicolo.
Perchè, quando pretendevi di parlare del Lodo Alfano alle assemblee di classe, te lo meritavi.
Ci sei arrivato con cinque anni di ritardo, ma cazzo te lo meritavi.

La verità è che ognuno di noi vuole essere l'obiettivo. L'obiettico che sta dietro l'obiettivo. L'obiettivo che sta dietro l'obiettivo che sta dietro l'obiettivo.
La verità è che ognuno di noi vuole sentirsi superiore. Perchè ognuno di noi si crede superiore.
La verità è che - fanculo - se non avessimo un'opinione almeno decente di noi stessi, dovremmo tutti tagliuzzarci la pelle stile "Solitudine dei numeri primi".

Ecco. Era più o meno questo, il concetto.

Basta capire che nessuno di noi può davvero arrivare a esserlo, quell'ultimo anello di obiettività.
Che ci sarà sempre qualcuno che ci troverà ridicoli contraddittori krumiri.
Basta capire che alla fine non è nemmeno questo grandissimo problema.
Che qualche anima buona capace di sopportarci alla fine ci sarà pure.

Basta capire questo per vivere bene.

22 ottobre 2010

Road to nowhere

Aveva dimenticato la scuola.
Completamente rimossa. Cancellata.
“Colpa di Milano”, pensò, svegliandosi al bip-bip del suo fedele cellulare.
In effetti le classiche tappe di avvicinamento alla prima odiosa giornata scolastica, quell’estate, erano mancate.
L’acquisto dei libri, la spasmodica ricerca dell’ultima Smemo, di qualche quadernone e di un astuccio decente.
Operazioni che odiava, ma che – in un modo o nell’altro – cominciavano a inserirlo nel mood da liceale.
Aveva delegato tutto alla madre, quell’anno. Che aveva comprato la metà dei libri, un orrendo portapenne molto anni ‘80 e un diario della Gazzetta dello Sport.
Quasi non riusciva a ricordarsi delle volte in cui andava a comprarla lui, la roba. Con suo padre.
Suo padre.
“Ma dove le hai prese, ‘ste cose?”
“Una volta ti piaceva, il calcio.”
“Appunto. Una volta.”

Eppure gliel’avevano detto che non sarebbe stata una grande idea, tornare da Milano una dozzina di giorni prima del suo “ultimo primo giorno di scuola”.
No, non avevano ragione. Ma forse nemmeno tutti i torti.

La strana euforia della sera precedente stava già sparendo.
“Colpa della scuola”.
Mise su un paio di jeans e le scarpe da ginnastica un po’ rotte che da sempre lo contraddistinguevano. Indossò anche la maglietta “Fashion is for idiots”, regalatagli da Marta.
Sapeva che il resto dei suoi compagni di classe lo avrebbe guardato male. Sapeva che lo avrebbero preso in giro per quel taglio di capelli un po’ approssimativo. Sapeva anche che probabilmente non avrebbe avuto il coraggio di parlarle.
Andò a svegliare il gatto, gli accarezzò quel pelo ispido che meritava una lavata.
Nella cartella un quaderno, il diario, tre matite e lo skate.
Prima di uscire di casa, ingurgitò un po’ di quell’insulso caffè da due soldi che sua madre gli preparava, credendo di fargli un piacere.

“Si ricomincia”.

Ricordava il suo primo giorno di scuola. Il primo primo. Quello vero.
I suoi compagni di classe non ricordavano nulla.
Lui invece sì. Ogni insulso dettaglio.
L’abbraccio di sua madre, quello stupido “da oggi sei un ometto, Nico”. Il bacio di suo padre.
Suo padre.
La faccia scocciata di sua sorella, all’epoca quattordicenne. Da quel giorno in poi le sarebbe toccato anche accompagnare Niccolò a scuola, con tutti i fastidi del caso.
La sua mano vagamente sudaticcia.
Ricordava le facce stranite di quelli che sarebbero diventati i suoi “amichetti”. Con cui avrebbe stretto amicizie one shot di cinque anni. Che si sarebbero poi spente, come un fuoco acceso male.  Float into a mist, avrebbe cantato Lou Reed.
Aveva subito approcciato una bambina carina. Elena, si chiamava. Le aveva stretto la mano con la tenerezza e la temerarietà dei cinque anni.
Lei era scoppiata a piangere, è vero. Ma questo è un altro discorso.
Quel giorno aveva conosciuto anche Max.
L’unico di quella classe che vedesse ancora. Che avesse continuato a frequentare anche dopo essere stato bocciato. O, per dirla alla maniera di sua madre, “dopo aver perso un anno”.
Anche dopo la morte di suo padre.
Suo padre.

Erano diversi, loro due. Molto diversi. Uno molto aperto, l’altro introverso. Uno un po’ superficiale, l’altro parecchio sensibile. Uno patito di tecnologia, l’altro romantico pittore.
A volte sembrava che la loro amicizia andasse avanti solo per inerzia. Perché non conoscevano molte altre persone, perché non avevano voglia di conoscerne.
O forse no.
Forse era proprio quest’essere molto diversi che li rendeva così uniti.

Avevano passato insieme più della metà dei loro pomeriggi. Tra stupide partite a Fifa, versioni di latino copiate a vicenda e lunghe passeggiate.
Insieme avevano scoperto il fumo. Insieme avevano bevuto la loro prima birra. Insieme.
Certo, a volte capitava di doverlo accompagnare in un improbabile giro al centro commerciale per trovare l’ultimo accessorio per I-Pad, o di dover ascoltare controvoglia gli Oasis.
Ma Max era quasi tutto ciò che avesse. Max era suo amico, Max era suo fratello. Max era la sua vera famiglia.

Mentre pensava, si era fermato davanti all’uscio. Quasi senza accorgersene.
Si stupiva spesso di come gli altri riuscissero a perdersi in pensieri e considerazioni continuando a vivere la loro vita. Continuando ad andare al lavoro, continuando a cucinare, a lavare i piatti o a stirare camicie.
Lui non ne era capace.
Era convinto che pensare sia un lavoro. Qualcosa di impegnativo, che deve assolutamente concentrare ogni singola sinapsi del cervello di una persona.
Non riusciva a pensare mentre camminava. Mentre era a scuola. Mentre ascoltava musica.
No, non ci riusciva.
Doveva prima fermarsi, buttarsi sul letto, sedersi.
Poi poteva cominciare a riflettere, immaginare. A creare.
Molti gli rinfacciavano la sua pigrizia. Molti gli dicevano che non combinava mai niente.
Non era così. Lui pensava, ed era già tanto.

Ormai aveva perso l’autobus, doveva fare quei due chilometri a piedi.
Probabilmente sarebbe arrivato tardi al primo giorno di scuola.
Triste, molto triste.
Anzi, probabilmente non sarebbe affatto arrivato. 
E no, non gli importava.
Prese il lettore MP3 e ricominciò a guardarsi intorno, con “Shine on you crazy diamond” nelle orecchie.

17 ottobre 2010

Chiudere faccenda Palahniuk con post


Io non ricordo nemmeno dove ho sentito parlare per la prima volta di Fight Club.
Di sicuro non era stata la prima volta che ho sentito parlare di Palahniuk.
Credo sia stato in un Macchiaradio, uno di quei podcast ascoltati mentre stai rimettendo a posto le vecchie videocassette di tuo fratello e non ne puoi più dei Talking Heads.
Il che succede piuttosto raramente, in effetti, ma succede.
Fatto sta che ho sentito parlare di questo film. Di Fight Club. Di David Fincher.
Che poi, peraltro, io non volevo nemmeno vederlo, Fight Club. Perché c’era Brad Pitt e per me – che avevo 14 anni e davvero non capivo un cazzo – Brad Pitt era il male.
Il solito atturoncolo gossip, addominali e bel faccino.
Non capivo davvero un cazzo.

O forse ce n’era una citazione nella Smemo di qualche anno fa. Le cose che possiedi alla fine ti possiedono. Ne fui impressionato.

Vidi il film, in sostanza.
Avete presente la sensazione di quando un tizio che hai appena conosciuto ti chiede qual è il tuo film preferito e tu non hai idea di cosa rispondere, chè ce ne sono troppi e non ti sei mai davvero posto il problema?
Io ce l’ho presente, perché prima di aver visto Fight Club la provavo sempre.
Poi non mi sono posto più il problema.

C’è un sito che qualunque persona che legga più di tre libri all’anno dovrebbe conoscere, e che di sicuro conoscerete. aNobii.
Mi sono iscritto a ‘sta specie di facebook per libri – come me l’aveva presentato il tizio che me l’aveva presentato.
Mi trovavo a visitare le “librerie” della gente, e notavo una costante. Un autore che ricorreva – quando più quando meno – sempre.
Un certo Chuck Palahniuk. Chè poi vallo a sapere che si pronuncia Polànic, in realtà.

Sì, è su aNobii che trovai per la prima volta il suo nome.
Ovviamente comprai subito Fight Club e lo lessi  in un paio di giorni, notando che il film non lo aveva per nulla snaturato, come da clichè.

Passò un altro po’ di tempo.
E una mattina, in una libreria in cui non ero mai stato, trovai tutti i suoi libri, in uno scaffale a lui interamente dedicato.
C’era Fight Club, ovviamente. E c’erano Survivor, Invisible Monters, Ninna Nanna, Rabbia, Gang bang.
C’erano tutti e decidi che prima o poi li avrei acquistati tutti. Uno per volta, però. Chè se no avrei fatto solo casino.
Ne presi uno a caso.

“Se stai per metterti a leggere, evita. Tra un paio di pagine vorrai essere da un’altra parte. Perciò lascia perdere. Vattene, sparisci, finchè sei ancora intero. Salvati.

E non vuoi comprarlo, un libro con un incipit così?
Lo lessi. Subito.

E’ un gran libro, Soffocare. Prendetelo, se la scuola/il lavoro vi lascia un po’ di tempo per leggere.
Perché ogni singolo punto e a capo è un pugno in faccia, ogni singola anafora è un calcio negli stinchi, ogni singolo “perché” a inizio periodo è una ginocchiata nelle costole.

Magari è vero che un libro non può cambiare una vita.
Ma una giornata, una settimana. Quelle di sicuro.

Mettete insieme

Bansky e Matt Groening.

10 ottobre 2010

Titolo e finale

C’è questo mio problema dei titoli e dei finali.
E si sta parlando di tutto, eh. Ok, di libri. Ok, di film. Ma non solo.

Io non ricordo i titoli. E non ricordo i finali.
Oppure, un’altra cosa. Io non ricordo i nomi delle persone.
Avete presente quegli orribili momenti tipo “piacere, Marialaura”. “Piacere, Enrica”. “Piacere, Simone”. “Piacere, Rosamunda”.
Ecco, se doveste conoscermi dal vivo, se non ci siamo mai visti e dovete presentarmi ( e ve lo chiedo in ginocchio ), non pretendete che io ricordi il vostro nome.
Non ditemelo, piuttosto.
Preferisco sapere dove abbiate preso quella maglietta di Arancia Meccanica, o perché avete i capelli a zero, o cosa diavolo significhi quell’idiogramma tatuato sul vostro braccio sinistro.
Poi verrà il momento di sapere il vostro nome. Di cercare di memorizzarlo.

Comunque, la questione fondamentale era quella dei titoli e dei finali.
Libri, film. Ma non solo, eh.
Un po’ di tempo fa la professoressa di storia e filosofia, santa donna anche se permeata di un bigottismo lancinante, santa donna anche se per lei gli omosessuali sono “deviati” e “perversi”, santa donna anche se fissata con i suoi stupidi preconcetti e con Husserl, ci ha portato a vedere un film.
Bello, davvero bello. Hitchcock. Con Sean Connery. Con quella grandissima gnocca che era Tippi Hedren.

Io l’avevo visto, quel film. Ricordavo di averlo visto. Magari quando ero piccolo, in una di quelle videocassette registrate 20 anni fa da Canale 5, che guardavo principalmente per le puntate di Striscia la Notizia all’inizio della registrazione e per la musichetta dello spot della Fiesta Ferrero, che adoravo.



Io ricordavo le prime scene di quel film. Lei che cammina con la sua borsetta gialla e con quelle meravigliose scarpe anni ’50, 8 cm di tacco o giù di lì.
Alfredino mio bello che esce da una stanza d’albergo per alcuni fotogrammi.
La faccia da scemo del proprietario dell’albergo derubato e i suoi vergognosi commenti maschilisti, che però da bambino mi facevano ridere.
Ma non avevo idea di come finisse.

Come ci si fa a non ricordare del finale di un film di Hitchcock?
Tutto si basa sul finale, nei film di Hitchcock.
E invece no. Niente. Nemmeno un vago ricordo. Niente. Di. Niente.

Chè poi questa cosa del non ricordare i finali un lato positivo ce l’ha. Ho rivisto 2001, Odissea nello Spazio per 3 volte, ognuna come fosse la prima, prima di leggere il libro. Perché sì, ok non ricordare i i finali. Ma quello di 2001 Odissea nello spazio si DEVE sapere.
E ne ha altri, di lati positivi. Anche non parlando di libri o di film.
Perché, davvero, alla fine conta poco che titolo diamo a una storia. Come si concluda.
E forse non è un caso se ricordiamo più altre scene che l’epilogo.
Non è un caso se sarà quel particolare momento a tornarci in mente e se rideremo di quella particolare battuta, senza più sapere cosa abbia finito per portare.

Alla fine, rimarranno solo "Kodak moments". Slegati da tutto il resto.

E l’unica cosa importante, alla fine, è solo che ce ne siano stati tanti, di momenti memorabili.

8 ottobre 2010

8 ottobre

Non lo so.
Non l'ho mai saputo.

C'è stata questa cosa dell'8 ottobre, no? Io lotto l'otto ottobre.
Io l8 l'8 8bre, per la precisione.
(Chè sull'efficacia e sulla comprensibilità di certi slogan uddiessini bisognerebbe farci un post a parte, ma va beh.)

C'è stata questa manifestazione.
A cui ho aderito, eh.
Perchè ci credo.
Perchè credo che tagli così drastici non possano essere sostenibili.
Perchè penso che le nostre scuole siano troppo vecchie.

O forse per volontà di conformarmi a dei modelli.
Giusto un po', eh.

Hai voglia a dire "completa indipendenza di pensiero".
La verità è che abbiamo bisogno di modelli come del caffè.
Come delle caramelle dell'equo e solidale che se non ne mangi almeno tre al giorno ti senti male e vai a vomitare.

La verità è che ci regoliamo in base a loro in ogni occasione.
Leggiamo i libri che ci vengono prestati. Ascoltiamo i pezzi che piacciono alle persone che stimiamo. Ci vestiamo come si vestono loro.
Scriviamo come scrivono loro.

Perchè -sì, cazzo- il "perchè" a inizio frase l'ho preso dal Caccia. Che magari l'ha preso dall'autore di una filastrocca che gli piaceva tanto. Che l'aveva preso da - chenneso - una pagina di Svevo. Che l'aveva preso da Joyce che l'aveva preso da Milton che l'aveva preso da Virgilio che l'aveva preso da Omero che l'aveva preso da suo cugino.
Il "chè" accentato da Bordone.
Tutti 'sti andare a capo inutili da Palahniuk.

Chè poi uno magari a forza di assimilare tante cose da tante persone riesce pure a crearsi un proprio stile.
E io ci provo, eh.
Ma hai voglia a dire "completa indipendenza di pensiero".

Comunque non volevo parlare proprio di questo.

A me, in realtà, le manifestazioni non sono MAI piaciute più di tanto.

Sì, ci si andava.
Un po' perchè è bello sentirsi persi nella folla.
Un po' per provare a conoscere nuove persone.
Un po' per sondare il clima e cercare di capire perchè 'sto cazzo di corteo sia stato organizzato, stavolta.

Ma mai impazzito per i pogatori assassini, mai over the moon per i Bella Ciao, mai emozionato per i cento passi, mai preso da "Legalizacion"
E non fraintendetemi. Tanto rispetto per i partigiani, bravi gli Ska-p, e Peppino è uno dei miei eroi personali.
Eroe nel vero senso della parola.

Ma mai impazzito.

Poi che succede?
Succede che quei tizi fighi, oltre a essere tizi fighi che però più di tanto non ti riescono a dire, diventino tuoi amici.
La tua famiglia, forse.
Succede di capire che quella facciata di Ska-P è - appunto - solo una facciata.
E che dietro quei "che ne faremo delle camicie nere?" c'è un mondo più grande.
Più complesso.
Più tuo.

Succede di capire che quelle persone ci stanno provando davvero a costruire qualcosa di bello.
Di migliore.

O magari no.
Magari non di migliore, ma di più simile a loro.
Di più simile a noi.

6 ottobre 2010

Pensiero profondo del pomeriggio/tantichenonmiricordonemmenopiùquanti

Non c'è niente di peggio che sentirti cambiato e accorgerti che il mondo ti guarda allo stesso identico modo.