31 dicembre 2010

Condivisione

Da che deriva la nostra solitudine? Il nostro bisogno di sentirci compresi?

A volte bisognerebbe chiederci quante cose facciamo realmente per noi e quante semplicemente per sentirci accettati.
Quanta parte del tempo sia davvero nostra, e quanto invece ne sprechiamo in azioni effimere, sconsiderate o, al più, inutili.
Quanto il miglioramento del nostro animo, la tensione verso l'alto sia sentita, e quanto invece ci serva al raggiungimento dell'unico scopo della nostra vita.
La condivisione.

Ne avevo già parlato, a suo tempo.
Ed è successo di nuovo, ieri.
Un signore che, sull'autobus, vedendomi intento nel "Così parlo Zarathustra", mi ha chiesto cosa stessi leggendo. Un sorriso, un commentino genere "certo che Nietzsche può essere un po' esagerato, a volte, ma scrive proprio bene", un'osservazione sulle traduzioni di un tempo che "potevano essere più complicate, ma come rendevano bene il testo".

Ecco, io non riesco a capire la soddisfazione che ce ne deriva.
Ogni volta.
Ogni volta che qualcuno si infila nostro piccolo limitato mondo.
Ogni volta che "troviamo casa nella mente di qualcuno".

Come se il solo piacere che derivi da ogni azione della nostra vita sia la condivisione.

(Non lo scambio, eh. Chè quello non solo è inevitabile ma costruttivo.
Per quanto legare persone e concetti alla lunga possa far male, ma questo è un altro discorso.)

Non lo scambio, dicevo, ma la condivisione. Il sentirsi appartenenti allo stesso gruppo. Avere gli stessi valori, gli stessi interessi. Credere nelle stesse cose. Sentire di avere lo stesso "Erlebnis".
Come se ogni certezza fuggisse nel momento in cui l'altro con cui relazionarsi non ci fosse più. Come se rimanesse solo il nostro sporco, inutile io.

Sì, sentiamo di avere bisogno di conferme.
E se non le abbiamo, il nostro mondo vacilla.
Come quando da piccoli ti spostavano la sedia e per un attimo tutte le leggi fisiche ti sembravano alterate, e non capivi come fosse possibile che tu stessi cadendo, proprio in quel momento, proprio lì.

Il continuo terremoto dell'io.

27 dicembre 2010

L'idiota - parte 1 di 4

Il segreto della vita è non ripetere gli stessi errori.
Perchè il dolore, lo sai, porta alla conoscenza.
E la conoscenza porta alla felicità.
Perchè rileggere le vecchie parole non aiuta a superare.
Anzi, rinnova la sensazione di abbandono.

Perchè, mio caro principe Myskin, già abbandonato una volta ( e solo ora ne ricordo il motivo ), certe cose non hanno una ragione. Non esiste un motivo.
Nastas'ya Filippovna era davvero la donna più bella, la donna più pura, un angelo che ti avrebbe salvato. L'unica degna del tuo innocente e gioioso amore.
E tu eri davvero l'uomo giusto per lei. Quello che aveva sempre sognato.

E avreste davvero avuto una vita felice, mio caro principe Myskin, con il milione e mezzo di rubli della tua eredità, e non te ne sarebbe importato nulla di quegli inetti, stupidi, mediocri mortali che non capendo il tuo animo ti chiamavano "idiota".
Perchè idiota è chi idiota fa, avrebbe risposto un tuo alter-ego, 130 anni dopo, in uno dei film più belli che il mondo abbia creato.

E invece no, mio caro principe.
Nastas'ya non c'è più. Andata via, scappata con il vile Rogozin.
Senza ragione, senza una colpa.
E ora sei qui, a perdonare. Per il tuo animo meravigliosamente puro, scevro di ogni contaminazione.
Probabilmente troverai anche tu la tua felicità. Magari quella Aglaya sposerà la tua ricchezza, e riuscirai a fartela bastare.

Ma io, carissimo principe, della tua storia non voglio saperne più nulla.
Oscura mi rimarrà la tua sorte, come oscuro è il destino degli uomini giusti, liberi, che nulla pretendono, che nulla ottengono.

Non so se avrai Aglaya. Non mi interessa. Non voglio leggerlo.
La tua Nastas'ya non c'è più.
E perchè andare avanti, mio amato principe?

22 dicembre 2010

Requiem per una supplenza

A me i tipi come te fanno impazzire.
Sai, quelli che quando li vedi non puoi non pensare "ma perchè?".
Ma perchè una bella donna, sueggiù trentacinquenne, che ha studiato filosofia, fa così?

Ti capisco, io. Ti capisco davvero.
Amore per il mondo ma disprezzo per l'umanità, forse.
Rivalutazione dell'apparenza.
O magari non so cos'altro, ma ti capisco.

Ti capisco, e capisco la tua buona fede.
Il messaggio era di pensare con la propria testa, senza lasciarsi attirare dal pensiero massificato dei nostri tempi squallidi, dai quali si vede che cerchi di fuggire. Con la tua ultima gonna lunga fuori moda. Con la tua collanona bianco-verde-rossa da 10 euro alla bancarella del corso.

E non era un cattivo messaggio, eh.
Oddio, magari se ne son visti di migliori. Se non altro di più originali.
Però davvero di fondo andava bene.

E capisco anche le tue difficoltà.
Il doverti dare un tono, chè a 35 anni e da appena arrivata nel liceo non è poi così facile.
Lo gestire così tante persone, chè 25 pazzi in una classe sono tanti, troppi, checchè ne possa dire qualche pazzo ministeriale.
I possibili commentini sulla tua presunta vita sessuale, chè quelli ci sono sempre, e immagino tu lo sappia, e immagino ti diano fastidio.

Quindi, davvero, te lo ripeto. Lo capisco.
Ma come puoi non accorgerti che il tuo messaggio non può passare, così?
Che non si può predicare di pensare liberamente per poi soffocare qualunque forma di espressione non autorizzata da te?

Come puoi non capire che impedire a una persona di - chenneso - andare in bagno perchè-non-l'hai-chiesto-da-posto non ti fa sembrare più autorevole, ma solo ridicola?
Che ogni "shh, ragazzi, epperfavore" è un passo verso l'incomunicabilità?
Che i tuoi 9, che i tuoi "allora in gamba, eh" -con quelle premesse- diventano non uno sprone ad andare avanti ma nient'altro che uno dei soliti complimenti di terza fascia da professore immerso nel suo mondo ad alunno sprofondato nel suo altro mondo?

Boh, peccato.
Peccato perchè magari il tempo avrebbe cambiato le cose.

Perchè, alla fine, la risposta al "perchè fai così" è una sola.
La più banale, la più grave.

Perchè non te ne rendi conto.
E mi dispiace. Davvero.

17 dicembre 2010

Il mio amato nulla

E stupirti delle pieghe che prendono le cose.

Chè vivi immerso nella tua quotidiana abitudinarietà.
Mangiare, tornare a casa, uscire, dormire.
Roba già detta, lo so.

E avere paura di quelle abitudini. Del loro tornare. Del loro accoglierti nel loro stretto, angusto ripostiglio di pace, sicurezza e noia.
Del loro caldo cantuccio di paure sottaceto.
Perchè ciò che è giusto è giusto. E ciò che si deve fare si deve fare.
Nothing more than that, my dear.

E sentirselo dire da tutti. Che è sbagliato intendere la vita così. Che l'eterno ritorno è una stronzata. Che il bisogno di emancipazione. Che il crescere. Che la vita.
Che la vita è vita, e non abitudine.
Non "lavare denti tre volte al giorno". Non "fare abbondante colazione". Non "finire compiti". Con la "o" di compiti rigorosamente chiusa, ovviamente.

Che la vita è vitalità, inconsapevole bisogno di pienezza e azione.

E allora tu ci provi, ad uscire fuori dai ranghi.
A darti le tue regole.
Solo tue, chè quelle altrui magari possono anche andare bene, ma sono altrui e allora no, bene non vanno affatto.
A mettere i tuoi sacrosanti puntini sulle tue sacrosante i.

A rivestirti di dionisiaco. E lo sai che la metafora è stantia, e Nietzsche sopravvalutato, ma non te ne frega un cazzo.
Ebbro del tuo spirito vitale, creatore, distruttore.
Chè Apollo è morto, come Dio. E gli inerti mantenitori di apparenti equilibri da due soldi, qui dentro, tu non li vuoi più.

Ci provi a parlare la tua lingua. A osare.
A spogliarti della tua mediocrità.

E poi.

E poi ti ritrovi qui, e per amici la tastiera e De Gregori, e la voce dentro di te che sussurra "fanculo".

Ma ora, mondo.
Mondo crudele, mondo stantio, ottuso mondo che non capisce un cazzo.
Ora, squallido mondo che ride.
Che dileggia, che offende. Che sputa in faccia alla bellezza e alla verità.

Mondo nei confronti del quale non eri mai stato così offeso.
Mondo che non capisce lo scarto tra realtà e ideale.

Mondo. Vero, regolato mondo di merda.
Almeno sei contento, ora?

2 dicembre 2010

Un bacio



"Nel momento in cui questo libro va in stampa, l'omosessualità è un reato in 80 paesi del mondo."
E' così che si apre la nota conclusiva dell'ultimo romanzo di Ivan Cotroneo, "Un bacio".
Certo, il tema dell'omofobia non è nuovo. Forse non se ne sentiva il bisogno, di un altro intellettuale che ci spiegasse perchè discriminare è sbagliato.
Non è nuovo. Anzi, potrebbe sembrare ormai logoro.
Saggi, report giornalistici, quelle tanto pretensiose quanto controproducenti campagne pubblicitarie genere "siamo tutti diversi, rispettiamo la diversità".
Ma il migliore articolo di opinione, la migliore inchiesta del migliore settimanale italiano non ha un decimo della forza emotiva di una storia interessante, raccontata bene.

Liberamente ispirato alla vicenda del californiano Larry King, "Un bacio" racconta la storia di Lorenzo, adolescente omosessuale innamorato del compagno di classe Antonio, del loro bacio e di un "atto di violenza", come recita il retro della copertina.
Il racconto si snoda attraverso tre diversi punti di vista: per primo parla il protagonista, poi Elena, insegnante di lettere, quindi Antonio.

Non c'è una vera e propria trama. Non c'è un inizio, uno svolgimento, una conclusione.
Solo due istanti, ugualmente decisivi. Due attimi da fotografare, e da rivedere fin quando restino impressi nella memoria del lettore. Due "kodak moments", direbbero gli Inglesi.
Quello del bacio, ovviamente, da cui il romanzo prende il titolo. Tre, quattro secondi di pura e infantile gioia per Lorenzo, al quale sembra di essere nato solo per vivere quella sensazione; un oscuro nulla per Antonio, troppo legato agli stupidi pregiudizi inculcatigli da una famiglia opprimente e da un gruppo di amici tanto influente quanto negativo per la sua personalità.
Due momenti, dicevo. Quello del bacio e (SPOILER!) quello della morte del protagonista.

E' proprio l'opposizione irriducibile tra amore e morte l'elemento che colpisce di più durante la lettura. Il senso di rabbia e di ingiustizia per l'assurda fine del protagonista traspare da ogni pagina. Eppure, Cotroneo non ricorre a interventi personali per far trasparire il suo punto di vista. Anzi, tende a scomparire dietro ai personaggi che crea.
Usa addirittura il vecchio trucco, che funziona sempre, di inserire errori grammaticali e sintattici che farebbero gridare allo scandalo qualche avventato purista della lingua.

Molto interessante è il modo in cui l'autore ci presenta i personaggi. Cotroneo non cade mai nell'errore di offrirci dei modelli di comportamento. Nessun carattere è totalmente positivo o totalmente negativo. Lorenzo, che finisce comunque - ovviamente - per attrarre la nostra simpatia, ha tanti lati oscuri. Elena, l'insegnante, è talmente persa nel suo sogno d'amore per l'ex allieva trasferitasi a Milano da non accorgersi del pericolo incombente. E Antonio, d'altro canto, è solo un povero ragazzo che vive in una società perversa. Una società che isola il "diverso" e tutti coloro che - in un modo o nell'altro - a quel "diverso" si trovano vicino.

E' dunque un libro che si rivolge a tutti, questo, perchè possa cambiare in meglio quella società descritta con tanto astio.
Ma è un libro che trova il suo lettore ideale nei membri di quelle due generazioni raffigurate nelle immagini di Antonio e Elena.
Il primo che, come tutti gli altri, ha sostituito i suoi sogni e la sua vita con le "frasi vecchie e consumate" dei compiti in classe. Che ha già "rinunciato alle parole". Che ha già rinunciato a tutto il resto.
La seconda, delusa dalla sciatta piattezza di un mondo di burocrati da cui non riesce a scappare.

Un libro da leggere, dunque. Nonostante qualche inevitabile clichè, nonostante la già indicata non proprio originale scelta del tema.
Da leggere, magari, con in sottofondo un bell'album degli Smiths, citati in quarta di copertina.

Perchè, come diceva Salinger, "quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira".
E a me, di chiamare Cotroneo, alla fine la voglia è venuta.

16 novembre 2010

Message in a bottle

Perchè voi ragazzi non avete materialmente il tempo di pensare.

Vi alzate, fate la doccia, venite a scuola.
Tornate a casa, studiate.
Al massimo fingete di divertirvi con il solito gruppo di amici.
Tornate a casa, fate la doccia, mangiate, andate a letto.

E nessun momento per voi stessi. Nessun momento per lasciarvi andare.

Voi ragazzi siete talmente occupati che, se mai vi capitasse di avere un giorno libero, cerchereste di occuparlo in ogni modo.

Siete lì, a darvi delle scadenze. Ad investire su voi stessi.
A pensare al futuro, che non è pensare.
A pensare al presente, che non è pensare.

No, ragazzi. Lo so che state scuotendo la testa. Non è che vi manca il tempo.
Vi manca proprio l'attitudine.

Io non voglio fare quello che implora il ritorno dei bei tempi andati, ma a me sembra che voi non abbiate il coraggio, nè la voglia o la capacità di fermarvi.
Di prendere una sedia e sedervi a un tavolino, buttando giù due righe su di voi con una penna stilo in mano.
Due righe su cosa VOI vorreste dalla vostra vita. Su quale piega farle prendere.
O su cosa, banalmente, vorreste mangiare domani.

Perchè voi ragazzi dovete studiare. Dovete avere una vita sociale decente. Dovete accontentare i vostri genitori.
Dovete passare del tempo a casa, chè se no pare brutto.

Dovete, dovete, dovete.
Scuola, famiglia, amici.
Dovete.

Ma ragazzi, per favore. Ora basta.

Guardatevi intorno.
Fermatevi.
Ora.

Dovete farlo, ragazzi.

15 novembre 2010

The only things left

I libri non letti.
I pranzi mai mangiati.
I film non visti.
I progetti andati a male.
Le elezioni perse.
I consigli non seguiti.
I governi caduti.
Le opinioni cambiate.
Le accuse dissolte.
Gli esami non superati.
Le abitudini abbandonate.

Perchè, alla fine della fiera, le uniche cose che ci rimangono sono quelle che non ci sono più.

(E, soprattutto, perchè mi andava di fare una lista.)

8 novembre 2010

Ma proprio sfogo senza senso

Ecco, voi che "ma perchè stai così?".
Voi che prendete in giro quando non è il momento.
Voi che "fammi un sorriso, per favore".
Voi che "ehi, quello sono io".
Voi che non ci siete se ne ho bisogno.
Voi che "ma non riesci proprio a venire?"

Ma soprattutto voi.

Voi che "ma guarda me, dai".
Voi che "eddai, ma ci sono ben altri problemi".

Cazzi vostri mai, eh?

4 novembre 2010

Sogno ricorrente

Sono lì.
Cioè, non lì.
Qui.
Sì, forse sarebbe meglio dire "qui".
Qui a casa, intendo.

No, chè poi in realtà non sono proprio a casa.
Sono fuori.
Cortile. Giardino. Orto. Mai capito come lo si debba chiamare, 'sto spazio appena fuori dalla porta.
Però va beh. Il punto è che sono qui.

Sto giocando.
Ho 10 anni e gioco. Normale, no?
Con un paio di compagni di classe, l'amico di Roma che viene d'estate e tre o quattro bambini che non conosco, ma che mi stanno simpatici.
E non lo so, perchè mi stanno simpatici.
Forse perchè quella clavicola sporgente non può far altro che simpatia. Forse perchè hanno la maglia del Napoli.
Chè poi ora sto cercando di razionalizzare, ma la verità è che mi stanno simpatici e punto.

Stiamo giocando.
A pallone. Calci di punizione, per essere precisi.
Tre sedie come barriera, il muro del locale-caldaia come porta.
Non so chi stia vincendo. In realtà nemmeno me ne frega.
So solo che sono qui, con alcune persone con cui mi trovo bene. Che stiamo giocando al mio gioco preferito. Che tra un po' uscirà dalla porta mia madre con il succo di frutta ACE e i biscotti alla nutella.

Deve essere estate, chè non sento il patema dei compiti.
O magari, chissà, è sabato pomeriggio di qualche stupida giornata tardoprimaverile.
Perchè, cazzo, alle elementari non ci si anticipa i compiti.

Poi, sento qualcosa. Qualcosa che non sia il rumore del supersantos sul garage, intendo.
Chiudo gli occhi per ascoltare meglio.

E'... E' un rumore costante.
No, non è costante.
E' qualcosa che si sta avvicinando verso di noi.
Verso la nostra innocenza, verso la nostra fanciullezza. Verso i nostri tiri a giro da novelli Mihailovic, chè quando avremo 22 anni saremo tutti calciatori di serie A, e segneremo direttamente da punizia e ci ricorderemo di quelle volte che giocavamo davanti casa e lo diremo ai giornalisti e ai tifosi che impazziranno per noi.

Li riapro.

Passa solo un attimo prima che riesca a vederlo.
Un camion.
Un camion guidato da un omone grasso, alto e pelato.
Che ride, oltretutto.
Nemmeno tanto vecchio, ma brutto come la vecchiaia. Più della vecchiaia. Con quei denti gialli che non so come riesco a vedere.

Un camion che non so come diavolo stia arrivando qui.
Che non so da dove sia entrato nell'orto-giardino-cortile o chissàccosaperlui.
Un camion il cui clacson, suonato da quello stronzo che ride, non la smette di suonare.

E più il camion si avvicina, più il clacson suona.
Più il clacson suona, più non mi muovo.

Più il camion si avvicina, più non mi muovo.

28 ottobre 2010

Pensiero stupido

La sinistra si divide tra chi vuole vedere Berlusconi in galera e chi lo vuole vedere sconfitto.

26 ottobre 2010

Chè doveva essere solo un Pensiero profondo, mezz'ora fa

E' una catena ininterrotta.
Ora. Il concetto che cercherò di spiegare non è tanto originale, me ne rendo conto.
Nè tanto originale nè tanto sensato, probabilmente.
Finirà per essere il solito flusso di coscienza moralistico di noi che suiggiovanid'oggiciscatarrosu.
Probabilmente.

Ma tant'è. E' il mio cazzo di blog e - almeno qui - faccio quel cazzo che mi pare.
C'entra Hegel, con il discorso che voglio fare. Forse c'entra anche Schopenhauer. C'entra Palahniuk che - fanculo - c'entra sempre.

Ecco. Il fatto è che ognuno di noi vuole essere quello che prende per culo.

Dove "prendere per culo" è concetto figurato, astratto, metaforico.
Dove "prendere per culo" non è tanto il "Filippone Filippò", o vaffanculeggiare l'unico leghista della scuola.
Non è "I libri del fascista vanno bruciati nonvendutinnèccatalogati", o l'urlare "eh, ti piace la nutella?" all'interrogazione del compagno di classe leggermente sovrappeso.

E' più vicino al concetto di "affermare la propria superiorità". Denunciare l'idiozia.
Apertamente o di spalle. Che l'altro sappia o no.

Piantare la bandiera del nostro pensiero sull'arido terreno dell'ottusa mentalità altrui.

Perchè, quando quella di storia si arrampica sugli specchi, cercando di inventarsi scuse assurde invece di ammettere che "sì, ragazzi, ho sbagliato, andiamo avanti". Quando quella di storia fa così, se lo merita. Se lo merita di essere irrisa.
E non per l'errore, eh. Chè alla fine chissenefrega se non ti ricordi chi sono gli slavofili e gli occidentalisti, ma dai cazzo, è ridicolo.
Perchè, quando pretendevi di parlare del Lodo Alfano alle assemblee di classe, te lo meritavi.
Ci sei arrivato con cinque anni di ritardo, ma cazzo te lo meritavi.

La verità è che ognuno di noi vuole essere l'obiettivo. L'obiettico che sta dietro l'obiettivo. L'obiettivo che sta dietro l'obiettivo che sta dietro l'obiettivo.
La verità è che ognuno di noi vuole sentirsi superiore. Perchè ognuno di noi si crede superiore.
La verità è che - fanculo - se non avessimo un'opinione almeno decente di noi stessi, dovremmo tutti tagliuzzarci la pelle stile "Solitudine dei numeri primi".

Ecco. Era più o meno questo, il concetto.

Basta capire che nessuno di noi può davvero arrivare a esserlo, quell'ultimo anello di obiettività.
Che ci sarà sempre qualcuno che ci troverà ridicoli contraddittori krumiri.
Basta capire che alla fine non è nemmeno questo grandissimo problema.
Che qualche anima buona capace di sopportarci alla fine ci sarà pure.

Basta capire questo per vivere bene.

22 ottobre 2010

Road to nowhere

Aveva dimenticato la scuola.
Completamente rimossa. Cancellata.
“Colpa di Milano”, pensò, svegliandosi al bip-bip del suo fedele cellulare.
In effetti le classiche tappe di avvicinamento alla prima odiosa giornata scolastica, quell’estate, erano mancate.
L’acquisto dei libri, la spasmodica ricerca dell’ultima Smemo, di qualche quadernone e di un astuccio decente.
Operazioni che odiava, ma che – in un modo o nell’altro – cominciavano a inserirlo nel mood da liceale.
Aveva delegato tutto alla madre, quell’anno. Che aveva comprato la metà dei libri, un orrendo portapenne molto anni ‘80 e un diario della Gazzetta dello Sport.
Quasi non riusciva a ricordarsi delle volte in cui andava a comprarla lui, la roba. Con suo padre.
Suo padre.
“Ma dove le hai prese, ‘ste cose?”
“Una volta ti piaceva, il calcio.”
“Appunto. Una volta.”

Eppure gliel’avevano detto che non sarebbe stata una grande idea, tornare da Milano una dozzina di giorni prima del suo “ultimo primo giorno di scuola”.
No, non avevano ragione. Ma forse nemmeno tutti i torti.

La strana euforia della sera precedente stava già sparendo.
“Colpa della scuola”.
Mise su un paio di jeans e le scarpe da ginnastica un po’ rotte che da sempre lo contraddistinguevano. Indossò anche la maglietta “Fashion is for idiots”, regalatagli da Marta.
Sapeva che il resto dei suoi compagni di classe lo avrebbe guardato male. Sapeva che lo avrebbero preso in giro per quel taglio di capelli un po’ approssimativo. Sapeva anche che probabilmente non avrebbe avuto il coraggio di parlarle.
Andò a svegliare il gatto, gli accarezzò quel pelo ispido che meritava una lavata.
Nella cartella un quaderno, il diario, tre matite e lo skate.
Prima di uscire di casa, ingurgitò un po’ di quell’insulso caffè da due soldi che sua madre gli preparava, credendo di fargli un piacere.

“Si ricomincia”.

Ricordava il suo primo giorno di scuola. Il primo primo. Quello vero.
I suoi compagni di classe non ricordavano nulla.
Lui invece sì. Ogni insulso dettaglio.
L’abbraccio di sua madre, quello stupido “da oggi sei un ometto, Nico”. Il bacio di suo padre.
Suo padre.
La faccia scocciata di sua sorella, all’epoca quattordicenne. Da quel giorno in poi le sarebbe toccato anche accompagnare Niccolò a scuola, con tutti i fastidi del caso.
La sua mano vagamente sudaticcia.
Ricordava le facce stranite di quelli che sarebbero diventati i suoi “amichetti”. Con cui avrebbe stretto amicizie one shot di cinque anni. Che si sarebbero poi spente, come un fuoco acceso male.  Float into a mist, avrebbe cantato Lou Reed.
Aveva subito approcciato una bambina carina. Elena, si chiamava. Le aveva stretto la mano con la tenerezza e la temerarietà dei cinque anni.
Lei era scoppiata a piangere, è vero. Ma questo è un altro discorso.
Quel giorno aveva conosciuto anche Max.
L’unico di quella classe che vedesse ancora. Che avesse continuato a frequentare anche dopo essere stato bocciato. O, per dirla alla maniera di sua madre, “dopo aver perso un anno”.
Anche dopo la morte di suo padre.
Suo padre.

Erano diversi, loro due. Molto diversi. Uno molto aperto, l’altro introverso. Uno un po’ superficiale, l’altro parecchio sensibile. Uno patito di tecnologia, l’altro romantico pittore.
A volte sembrava che la loro amicizia andasse avanti solo per inerzia. Perché non conoscevano molte altre persone, perché non avevano voglia di conoscerne.
O forse no.
Forse era proprio quest’essere molto diversi che li rendeva così uniti.

Avevano passato insieme più della metà dei loro pomeriggi. Tra stupide partite a Fifa, versioni di latino copiate a vicenda e lunghe passeggiate.
Insieme avevano scoperto il fumo. Insieme avevano bevuto la loro prima birra. Insieme.
Certo, a volte capitava di doverlo accompagnare in un improbabile giro al centro commerciale per trovare l’ultimo accessorio per I-Pad, o di dover ascoltare controvoglia gli Oasis.
Ma Max era quasi tutto ciò che avesse. Max era suo amico, Max era suo fratello. Max era la sua vera famiglia.

Mentre pensava, si era fermato davanti all’uscio. Quasi senza accorgersene.
Si stupiva spesso di come gli altri riuscissero a perdersi in pensieri e considerazioni continuando a vivere la loro vita. Continuando ad andare al lavoro, continuando a cucinare, a lavare i piatti o a stirare camicie.
Lui non ne era capace.
Era convinto che pensare sia un lavoro. Qualcosa di impegnativo, che deve assolutamente concentrare ogni singola sinapsi del cervello di una persona.
Non riusciva a pensare mentre camminava. Mentre era a scuola. Mentre ascoltava musica.
No, non ci riusciva.
Doveva prima fermarsi, buttarsi sul letto, sedersi.
Poi poteva cominciare a riflettere, immaginare. A creare.
Molti gli rinfacciavano la sua pigrizia. Molti gli dicevano che non combinava mai niente.
Non era così. Lui pensava, ed era già tanto.

Ormai aveva perso l’autobus, doveva fare quei due chilometri a piedi.
Probabilmente sarebbe arrivato tardi al primo giorno di scuola.
Triste, molto triste.
Anzi, probabilmente non sarebbe affatto arrivato. 
E no, non gli importava.
Prese il lettore MP3 e ricominciò a guardarsi intorno, con “Shine on you crazy diamond” nelle orecchie.

17 ottobre 2010

Chiudere faccenda Palahniuk con post


Io non ricordo nemmeno dove ho sentito parlare per la prima volta di Fight Club.
Di sicuro non era stata la prima volta che ho sentito parlare di Palahniuk.
Credo sia stato in un Macchiaradio, uno di quei podcast ascoltati mentre stai rimettendo a posto le vecchie videocassette di tuo fratello e non ne puoi più dei Talking Heads.
Il che succede piuttosto raramente, in effetti, ma succede.
Fatto sta che ho sentito parlare di questo film. Di Fight Club. Di David Fincher.
Che poi, peraltro, io non volevo nemmeno vederlo, Fight Club. Perché c’era Brad Pitt e per me – che avevo 14 anni e davvero non capivo un cazzo – Brad Pitt era il male.
Il solito atturoncolo gossip, addominali e bel faccino.
Non capivo davvero un cazzo.

O forse ce n’era una citazione nella Smemo di qualche anno fa. Le cose che possiedi alla fine ti possiedono. Ne fui impressionato.

Vidi il film, in sostanza.
Avete presente la sensazione di quando un tizio che hai appena conosciuto ti chiede qual è il tuo film preferito e tu non hai idea di cosa rispondere, chè ce ne sono troppi e non ti sei mai davvero posto il problema?
Io ce l’ho presente, perché prima di aver visto Fight Club la provavo sempre.
Poi non mi sono posto più il problema.

C’è un sito che qualunque persona che legga più di tre libri all’anno dovrebbe conoscere, e che di sicuro conoscerete. aNobii.
Mi sono iscritto a ‘sta specie di facebook per libri – come me l’aveva presentato il tizio che me l’aveva presentato.
Mi trovavo a visitare le “librerie” della gente, e notavo una costante. Un autore che ricorreva – quando più quando meno – sempre.
Un certo Chuck Palahniuk. Chè poi vallo a sapere che si pronuncia Polànic, in realtà.

Sì, è su aNobii che trovai per la prima volta il suo nome.
Ovviamente comprai subito Fight Club e lo lessi  in un paio di giorni, notando che il film non lo aveva per nulla snaturato, come da clichè.

Passò un altro po’ di tempo.
E una mattina, in una libreria in cui non ero mai stato, trovai tutti i suoi libri, in uno scaffale a lui interamente dedicato.
C’era Fight Club, ovviamente. E c’erano Survivor, Invisible Monters, Ninna Nanna, Rabbia, Gang bang.
C’erano tutti e decidi che prima o poi li avrei acquistati tutti. Uno per volta, però. Chè se no avrei fatto solo casino.
Ne presi uno a caso.

“Se stai per metterti a leggere, evita. Tra un paio di pagine vorrai essere da un’altra parte. Perciò lascia perdere. Vattene, sparisci, finchè sei ancora intero. Salvati.

E non vuoi comprarlo, un libro con un incipit così?
Lo lessi. Subito.

E’ un gran libro, Soffocare. Prendetelo, se la scuola/il lavoro vi lascia un po’ di tempo per leggere.
Perché ogni singolo punto e a capo è un pugno in faccia, ogni singola anafora è un calcio negli stinchi, ogni singolo “perché” a inizio periodo è una ginocchiata nelle costole.

Magari è vero che un libro non può cambiare una vita.
Ma una giornata, una settimana. Quelle di sicuro.

Mettete insieme

Bansky e Matt Groening.

10 ottobre 2010

Titolo e finale

C’è questo mio problema dei titoli e dei finali.
E si sta parlando di tutto, eh. Ok, di libri. Ok, di film. Ma non solo.

Io non ricordo i titoli. E non ricordo i finali.
Oppure, un’altra cosa. Io non ricordo i nomi delle persone.
Avete presente quegli orribili momenti tipo “piacere, Marialaura”. “Piacere, Enrica”. “Piacere, Simone”. “Piacere, Rosamunda”.
Ecco, se doveste conoscermi dal vivo, se non ci siamo mai visti e dovete presentarmi ( e ve lo chiedo in ginocchio ), non pretendete che io ricordi il vostro nome.
Non ditemelo, piuttosto.
Preferisco sapere dove abbiate preso quella maglietta di Arancia Meccanica, o perché avete i capelli a zero, o cosa diavolo significhi quell’idiogramma tatuato sul vostro braccio sinistro.
Poi verrà il momento di sapere il vostro nome. Di cercare di memorizzarlo.

Comunque, la questione fondamentale era quella dei titoli e dei finali.
Libri, film. Ma non solo, eh.
Un po’ di tempo fa la professoressa di storia e filosofia, santa donna anche se permeata di un bigottismo lancinante, santa donna anche se per lei gli omosessuali sono “deviati” e “perversi”, santa donna anche se fissata con i suoi stupidi preconcetti e con Husserl, ci ha portato a vedere un film.
Bello, davvero bello. Hitchcock. Con Sean Connery. Con quella grandissima gnocca che era Tippi Hedren.

Io l’avevo visto, quel film. Ricordavo di averlo visto. Magari quando ero piccolo, in una di quelle videocassette registrate 20 anni fa da Canale 5, che guardavo principalmente per le puntate di Striscia la Notizia all’inizio della registrazione e per la musichetta dello spot della Fiesta Ferrero, che adoravo.



Io ricordavo le prime scene di quel film. Lei che cammina con la sua borsetta gialla e con quelle meravigliose scarpe anni ’50, 8 cm di tacco o giù di lì.
Alfredino mio bello che esce da una stanza d’albergo per alcuni fotogrammi.
La faccia da scemo del proprietario dell’albergo derubato e i suoi vergognosi commenti maschilisti, che però da bambino mi facevano ridere.
Ma non avevo idea di come finisse.

Come ci si fa a non ricordare del finale di un film di Hitchcock?
Tutto si basa sul finale, nei film di Hitchcock.
E invece no. Niente. Nemmeno un vago ricordo. Niente. Di. Niente.

Chè poi questa cosa del non ricordare i finali un lato positivo ce l’ha. Ho rivisto 2001, Odissea nello Spazio per 3 volte, ognuna come fosse la prima, prima di leggere il libro. Perché sì, ok non ricordare i i finali. Ma quello di 2001 Odissea nello spazio si DEVE sapere.
E ne ha altri, di lati positivi. Anche non parlando di libri o di film.
Perché, davvero, alla fine conta poco che titolo diamo a una storia. Come si concluda.
E forse non è un caso se ricordiamo più altre scene che l’epilogo.
Non è un caso se sarà quel particolare momento a tornarci in mente e se rideremo di quella particolare battuta, senza più sapere cosa abbia finito per portare.

Alla fine, rimarranno solo "Kodak moments". Slegati da tutto il resto.

E l’unica cosa importante, alla fine, è solo che ce ne siano stati tanti, di momenti memorabili.

8 ottobre 2010

8 ottobre

Non lo so.
Non l'ho mai saputo.

C'è stata questa cosa dell'8 ottobre, no? Io lotto l'otto ottobre.
Io l8 l'8 8bre, per la precisione.
(Chè sull'efficacia e sulla comprensibilità di certi slogan uddiessini bisognerebbe farci un post a parte, ma va beh.)

C'è stata questa manifestazione.
A cui ho aderito, eh.
Perchè ci credo.
Perchè credo che tagli così drastici non possano essere sostenibili.
Perchè penso che le nostre scuole siano troppo vecchie.

O forse per volontà di conformarmi a dei modelli.
Giusto un po', eh.

Hai voglia a dire "completa indipendenza di pensiero".
La verità è che abbiamo bisogno di modelli come del caffè.
Come delle caramelle dell'equo e solidale che se non ne mangi almeno tre al giorno ti senti male e vai a vomitare.

La verità è che ci regoliamo in base a loro in ogni occasione.
Leggiamo i libri che ci vengono prestati. Ascoltiamo i pezzi che piacciono alle persone che stimiamo. Ci vestiamo come si vestono loro.
Scriviamo come scrivono loro.

Perchè -sì, cazzo- il "perchè" a inizio frase l'ho preso dal Caccia. Che magari l'ha preso dall'autore di una filastrocca che gli piaceva tanto. Che l'aveva preso da - chenneso - una pagina di Svevo. Che l'aveva preso da Joyce che l'aveva preso da Milton che l'aveva preso da Virgilio che l'aveva preso da Omero che l'aveva preso da suo cugino.
Il "chè" accentato da Bordone.
Tutti 'sti andare a capo inutili da Palahniuk.

Chè poi uno magari a forza di assimilare tante cose da tante persone riesce pure a crearsi un proprio stile.
E io ci provo, eh.
Ma hai voglia a dire "completa indipendenza di pensiero".

Comunque non volevo parlare proprio di questo.

A me, in realtà, le manifestazioni non sono MAI piaciute più di tanto.

Sì, ci si andava.
Un po' perchè è bello sentirsi persi nella folla.
Un po' per provare a conoscere nuove persone.
Un po' per sondare il clima e cercare di capire perchè 'sto cazzo di corteo sia stato organizzato, stavolta.

Ma mai impazzito per i pogatori assassini, mai over the moon per i Bella Ciao, mai emozionato per i cento passi, mai preso da "Legalizacion"
E non fraintendetemi. Tanto rispetto per i partigiani, bravi gli Ska-p, e Peppino è uno dei miei eroi personali.
Eroe nel vero senso della parola.

Ma mai impazzito.

Poi che succede?
Succede che quei tizi fighi, oltre a essere tizi fighi che però più di tanto non ti riescono a dire, diventino tuoi amici.
La tua famiglia, forse.
Succede di capire che quella facciata di Ska-P è - appunto - solo una facciata.
E che dietro quei "che ne faremo delle camicie nere?" c'è un mondo più grande.
Più complesso.
Più tuo.

Succede di capire che quelle persone ci stanno provando davvero a costruire qualcosa di bello.
Di migliore.

O magari no.
Magari non di migliore, ma di più simile a loro.
Di più simile a noi.

6 ottobre 2010

Pensiero profondo del pomeriggio/tantichenonmiricordonemmenopiùquanti

Non c'è niente di peggio che sentirti cambiato e accorgerti che il mondo ti guarda allo stesso identico modo.

14 settembre 2010

Moving forward

Pensavi di essere cambiato, eh?
Che leggere un paio di libri in più ti potesse far sentire meglio. Che conoscere un po' di gente significhi "crescere". Che "sì, ho 17 anni ma non sono come gli altri".
Sono più maturo, io. Eccheccazzo.
Pensavi fosse finito il tempo dei puntini, e dei "sono un bastardo misantropo che non riesce a relazionarsi con il mondo senza fare casini". Pensavi che non fosse più il momento dei "non è il momento"?
Pensavi che i Pink Floyd non fossero più, per te, la bibbia del 20esimo secolo, ma solo il tuo gruppo preferito?
Pensavi che le cose che scrivi siano decentemente leggibili?
Lo pensavi, eh?

Sì. Lo pensavo.
E nonostante tutto. Nonostante oggi, e le amicizie buttate via, e le figuracce, e le delusioni di chi non vorresti deludere, e il mio tornare a mangiare da far schifo e un'asta del fantacalcio abbastanza orrenda,  lo penso ancora.

Mi sono fermato.
Mi sono girato indietro. Mi sono rivisto 13enne imbranato che non sa cosa fare.

Ma da domani si ricomincia.
Si ricomincia a cambiare.
Si ricomincia a crescere.

13 settembre 2010

Pensiero profondo dell'ultimo primo pomeriggio

A volte un "grazie mille per le belle parole" riesce davvero a contare tanto.

10 settembre 2010

Requiem per l'adolescenza ( o "De caesura capillorum" )

E alla fine arrivò il momento.

Non molto preventivato, eh.
Nemmeno una di quelle decisioni mozzafiato.

Del tipo genitori a tavola, agnello al forno, patate.
Del tipo confessione figlio gay film di Ozpetek.
Mamma, papà, fratello, cognata prossima ventura. Ho una notizia da darvi. Taglio i capelli.

No, niente del genere.
Perchè le scelte di vita sono altre.
Perchè alla fine sono piccolezze.
Perchè chi cazzo se ne frega di come uno porta i capelli.

O forse no, scherzavo.
Forse le scelte di vita sono anche queste.
E alla fine non sono piccolezze.
E io me ne frego di come porto i capelli.

Però no, niente genitori a tavola. E niente agnello al forno.

"Stamattina si va a Napoli".
"Ah, ok".
"Andiamo a prendere i libri".
"Vado anche a tagliarmi i capelli."

Così, naturale.

Naturale un corno.
Cazzo. Non avrei dovuto.

E' solo che i miei capelli lunghi li davo un po' per scontati, ormai.
Stavano diventando un'abitudine. Mi ero stancato di loro.

E delle battutine stupide degli sconosciuti, di quelle dei compagni di classe, delle velate minacceruncole di tuo padre.
Del non vedere quando ti pieghi, del solletico alle spalle.
Del poterti coprire gli occhi.
Delle gocce d'acqua che cadono sul pavimento del bagno appena finito di docciarti.
Delle foto in cui non ti riconosci, e che ti fanno anche un po' schifo.

Tutto finito, ora.

Finito come il "voglio distinguermi dagli altri". Finito come il "guarda che anch'io ho una mia cazzo di schifosa identità". Finito come le menate tardoadolescenziali da Niccolò Fabi/Sansone di turno.

E ora vi giuro su Dio che vorrei cercare di spiegare cosa abbia significato, per me, averci dato un taglio. Ma non sono affatto sicuro di riuscirci, e non voglio provarci.
Per ora voglio solo prendere atto di questa cosa.

I miei capelli. Non. Ci. Sono. Più.

E' arrivato il momento di rendersi speciali - o magari solo strani - con qualche altra cosa.
Qualche altro piccolo particolare, qualche altra insignicante dissonanza.

I miei capelli sono morti, ma la loro idea vivrà.
O almeno, stasera vorrei tanto crederlo.

8 settembre 2010

La verità, solo la verità

Ora, uno ascolta il Caccia.
Riascolta il Caccia.

Il Caccia ha sempre questa cosa, di fare programmi di nove mesi per comunicare un solo messaggio.
Riempirci 20 minuti, ogni giorno, di belle frasi e della sua fantastica voce per un unico, singolo scopo.

Amnesia? Vivete la vostra vita come se fosse sempre la prima volta di ogni cosa.
Vendotutto? Emancipate yourselves from mental slavery. Buttate via tutte le catene che vi legano alle cose. Ricominciate da capo.

C'è questo nuovo programma, che avevo consigliato un paio di giorni fa senza nemmeno averlo ascoltato.
Si chiama "Sono qui". Devo averlo già detto.

E il messaggio fondamentale è "dite la verità". Alla vostra famiglia. Ai vostri amici. Al/alla vostro/a ragazzo/a. Al vostro professore.
Ma soprattutto a voi stessi.

E allora io lo faccio. Per una volta. Dico la verità a me stesso.
Confesso parte di ciò che non va, riservandomi di aggiornare il post ogni volta che posso.

- Sono troppo riflessivo.
- Passo troppo tempo davanti al PC.
- Ho sprecato 16 anni della mia vita a rincorrere il nulla.
- Faccio il 2% delle cose che decido di fare.
- Un altro paio di scarpe da ginnastica potrei anche comprarle.
- Ho paura degli altri.
- Sono troppo selettivo.
- Sbaglio gli accenti.
- A volte credo di avere l'unica verità.
- Cerco di ostentare le mie poche conoscenze.
- I miei capelli, molto spesso, sono ridicoli.
- Ho dei denti orrendi.
- Non rendo i miei giorni uno diverso dall'altro.
- Mi ammalo troppo spesso.
- Sono pigro.
- Sono superficiale.

E soprattutto

- Faccio poco per migliorare.

7 settembre 2010

Pensiero profondo della mattina

Tutte le stronzate tipo "è per il tuo bene", "se lo fai, lo fai per te stesso", "mica ti devi sentire in obbligo" sono stronzate.
Stronzate.

6 settembre 2010

Citazioni incolte

Lei è così pazzamente innamorata di me che non capisce più niente. E' per questo che è innamorata di me.

He's back

Quando torna il Caccia, io non posso esimermi dal segnalarlo.
Ogni giorno. Ore 16.00. Radio 24.
Sono qui.

A me la sigla non piace, ma da queste parti lo si ascolta comunque.
Sempre.

5 settembre 2010

Inutilmente autoreferenziale

Perchè scriviamo?
Domanda stupida, lo so. Domanda che già in milioni si sono posti prima di me. Domanda a cui migliaia hanno risposto. E con risultati sicuramente migliori di questo post.
Perchè tracciamo dei segni, convenzionalmente tramutabili in parole, su un foglio di carta?
Per rendere indimenticabile un momento. Perchè diventi immortale. Per lasciare qualcosa che resta, avrebbe risposto il pluricitato mio professore di latino, che peraltro - a quanto sembra - a breve non sarà più tale.
Concentrare un attimo in una pagina di soggetti, predicati e complementi. Affinchè possa essere ricordato, affinchè tutti coloro che si troveranno a leggere possano bearsene.

Sì, ok. E' così, non lo metto in dubbio.
Tutto sommato è per questo che scriviamo diari. Di scuola, di bordo, personali. E' per questo che apriamo milioni, miliardi di minuscoli bloggetti. Nella speranza che qualcuno prima o poi ci noti e ci trasformi nei più grandi degli scrittori.

Ma non è l'unica risposta.

Alcuni scrivono per sentirsi utili. Riportare notizie, aggiungere punti di vista, fare dibattito. Rendere un servizio alla comunità. Scrittori altruisti, nati per rendere migliori gli altri nel breve periodo. E se non migliori, più ricchi. Giornalisti, opinionisti, editorialisti. Conosciuti, ma presto dimenticati.
Che si rivolgono a tutti, che vogliono che la loro parola sia nota a tutti, dall'ultimo lattaio al primo ministro.

Altri lo fanno per sfogarsi. Scaricare sulla carta i propri pensieri, le proprie sensazioni, la propria frustrazione. Non hanno bisogno che qualcuno li legga. Scrivono per scrivere. Scrivono per pensare. Scrivono per smetterla di vivere. Almeno per qualche minuto. Almeno fino a quando la pagina non sarà finalmente riempita.

Poi ci sono loro. Quelli che scrivono per essere capiti. Che riempiono il foglio di parole incomprensibili con il solo scopo di far impazzire il lettore. Sperando che - prima o poi - arrivi qualcuno a dire "Sì, ok. Ho capito. E, cazzo, hai ragione tu."
Parlano per metafore, loro. Sono gli inventori delle frasi criptiche. Sperano che quel verbo possa risvegliare quella sensazione. Che quell'aggettivo possa far ricordare la scena del film che credono di stare vivendo.
Si augurano che quel post del 18 ottobre venga ricollegato a quello del 27 agosto dell'anno prima, da cui trae origine.
Si rivolgono ad un lettore ideale. Che non conoscono. Che non esiste, molto probabilmente.

Io non so dove collocarmi.
Per certi versi, fino ad ora questo blog è stato abbastanza eterogeneo.
Ho riportato notizie che mi facevano alzare sulla sedia. Ho cercato - quando possibile - di esprimere delle idee. Mi sono sfogato, con la consapevolezza che nessuno avrebbe capito. E senza alcuna voglia di essere effettivamente capito.

Ma credo che, tutto sommato, io possa rientrare nell'ultimo gruppo.
Ho sempre parlato ad un mio lettore ideale.
All'inizio era una persona conosciuta, l'unico che mi leggesse davvero. Poi un ragazzo che abita ad Amsterdam, che visitava ogni giorno il mio blog.
(Grazie, google analytics.)
E, dopo ancora, te. Te. Te. Te. Soprattutto, te.

Ho aperto i commenti, sperando che il lettore ideale si materializzasse davvero. Sperando di essere capito. Sperando di sentirmi meglio.

Poi è successa una cosa.
E' successo che il lettore ideale sia davvero comparso.
E che io ora sappia perfettamente a chi rivolgermi, quando scrivo queste parole. Che non mi interessa cosa gli altri pensino, di me. Dei miei post su Bersani, delle mie elucubrazioni mentali.
So che ci sei tu, ora. E davvero non me ne frega più niente.

Continuerò a scrivere. Per te.

2 settembre 2010

Nudisti - puntata 5 - Determinismo

Chè la filosofia, purtroppo, non è la mia materia preferita.
Non so se per colpa della mia professoressa, del mio libro, degli autori che ho studiato, della struttura del mio diavolo di cervello.
Non lo so. E’ che proprio non riesco ad appassionarmi al pensiero politico di Platone, alla teoria delle monadi, alla scommessa pascaliana.
Ehi, intendiamoci. Non è che non le studi, non è che non mi piacciano. E’ solo che non riesco ad appassionarmi.

E’ molto, molto più facile essere attratti dalla storia, ad esempio. Perché la storia, tutto sommato, è una grande favoletta. Dicono che la storia sia maestra di vita, dicono che serva a comprendere gli errori del passato per non sbagliare più nel futuro.
Stronzate. La storia è bella perché ci fa tifare. Per una parte o per l’altra.
Perché nella guerra 15-18 teniamo Italia e la vediamo vincere alla fine del paragrafo. Perché i rivoluzionari francesi l’hanno data su a quello stronzo di Luigi XVI, perché proviamo tanta compassione per i poveri operai inglesi del 1839.
Ma va beh, come al solito l’ho presa lunga.

La filosofia, dicevo, non è la mia materia preferita. Ma se affrontata in un certo modo, mi piace. Perché, a volte, anche la filosofia diventa favoletta. Perché, a volte, anche nella filosofia bisogna prendere posizione.
Credente o ateo? Pragmatista o idealista? Marxista o liberale? Relativismo o verità assoluta?
Prendiamo posizione, e cerchiamo di trovare nell’avversario il suo punto debole.
Tipo quella volta che cominciai a odiare profondamente Parmenide, trovando falle in ogni singola parola generata dal suo perverso pensiero. Contestando il fatto che un tizio che afferma di non dover seguire la strada della negazione definisca il suo stramaledettissimo “essere” solo per mezzo di litoti.
L’essere non è possibile che non sia. Non è mobile. Non è “due”. Non è mortale.
Mi sta sulle palle, Parmenide. Non ci posso far niente.
Comunque.

Il grande conflitto filosofico che da sempre mi appassiona un po’ di più è quello tra deterministi e fautori del libero arbitrio.
Ok, forse mi tocca dire cosa diavolo significhi “determinismo”. E Wikipedia docet abbastanza bene, in questo caso.
Il determinismo è l'idea che tutte le cose che accadono nel presente e nel futuro sono una conseguenza necessaria dagli eventi precedenti.
 
Io da piccolo ero determinista. Ancora non sapevo chi diavolo fossero Democrito, Lucrezio, Epicuro o Spinoza, ma condividevo perfettamente il loro pensiero.
Ero convinto che esistesse un universo per ogni singolo istante della nostra vita. Che esistessero milioni, miliardi di universi in cui vivere hinc et nunc. E che il tempo fosse solo il passaggio di una persona da un universo all’altro.
Con gli altri universi già scritti, ovviamente.

Pensavo che non importasse quale decisione si prendesse. Pensavo che – no – mettere i calzini di un colore piuttosto che di un altro non portasse a nessuna conseguenza vitale sugli altri.
E’ tutto già scritto. Punto.
Chè voi starete pensando: chissà che diavolo di tipo deve essere ‘sto cater3, se già a 10 anni si faceva ‘ste gran pippe mentali?
Avete ragione voi, ma dovete sopportarmi.

Comunque, poi ho cambiato idea.
Un po’ perché pensare che le cose succedono perché devono succedere e basta non è determinismo. E’ fatalismo. Un po’ perché vivere una vita pensando che non contino nulla le tue scelte non è facile. Soprattutto a 15 anni.

Però a me l’idea degli universi “hic et nunc” continua ad affascinarmi.
Perché, sì, ok.
Significa annullare il potere delle scelte, e eliminare in un secondo tutti gli stupidi preconcetti dell’homo faber fortunae suae.

Ma significa anche che tutti i momenti della nostra vita sono stati progettati per portare a qualcosa. Per portare a un singolo momento. Significa che tutti i tuoi 45 anni sono stati spesi per arrivare a quell’aumento di stipendio che sognavi da 25. Che tutti i tuoi 87 anni sono stati impiegati per arrivare a quel sorriso della tua nipotina. Che ogni singolo, lurido, istante della tua infelicità ti ha condotto a questo momento di massima gioia.

Che ogni film che hai visto, ogni libro che hai letto, ogni pagina che hai studiato.
Ogni festa in famiglia, ogni stupida canzonetta sentita, ogni chicco d’uva mangiato.
Ogni conversazione con sconosciuti su facebook, ogni trasmissione ascoltata, ogni pezzo da sei minuti scritto.

Ogni singolo momento della tua vita è servito a quelle due ore.
A quelle due ore di pura, infantile gioia.

Chè non esiste un termine migliore per definire questa sensazione.
Perché qualcuno potrebbe dire che è amore, ma non è la stessa cosa.

Due ore di assoluta perfezione. E tutta la vita per arrivarci.

1 settembre 2010

This post is about you

E poi mi trovo a leggere delle righe.
Che sembrano d'addio. Che forse sono d'addio.
You're so vain you probably think this post is about you, avrebbero potuto concludersi quelle righe. Con una citazione un po' inflazionata, ma che ci sta sempre bene. Forse.
Forse.
Sì, sono così inutile da pensare che probabilmente quelle righe si riferiscano a me.
Perchè prima o poi le strade si dividono. Perchè gli amici non sono fratelli. Perchè, sì, forse è arrivato il momento di cambiare raccordo.
Forse era già arrivato tempo fa.
Credo che la nostra amicizia si trascinasse, stanca e appesantita, già da un po'. Già da tanto.
Forse.
Siamo andati avanti molto tempo per inerzia, per abitudine, per fare qualcosa. Anche quando il senso si era ormai perso.
Continueremo ad andare avanti, probabilmente.
Passerà la tua amarezza, passerà il mio rancore per la tua amarezza.
Forse.
O forse no.
Troppo tempo è passato dalla prima volta che ci siamo conosciuti. Una prima volta che nemmeno ricordo. Sono cambiate tante cose. Forse troppe cose.
Forse.
E' sempre stato un rapporto del "forse", il nostro.
Almeno per me.
"Forse questo non dovrei dirlo, se la voglio contenta. Forse questa canzone potrebbe piacerle. Forse è inutile proporle quel film."
"Forse dovrei dirle tutto ciò che sento".
Forse no.
Ho finito per decidere per il "forse no".
E non far finta che non sia così, anche tu hai finito per decidere la stessa cosa.
Ridere alle battutine su di noi, invece di ricambiare il mio sguardo da cane bastonato.
Non fare mai un passo avanti.
Adesso, amice, non possiamo andarcene via sbattendo la porta.
Come se ci sentissimo delusi.
Come se quella stupida, stupidissima notizia fosse caduta dal cielo, inaspettata.
Amice.
Forse non arriverai nemmeno a vederle, queste parole.

Stamperò il tuo post che credo parli di me. Lo metterò vicino a tutti i bigliettini di auguri, vicino ai biglietti del cinema.
Li leggerò quando avrò voglia di far finta di avere dei bei ricordi.
E mi mancherai.

30 agosto 2010

28-08 / 30-08

Io credo di aver voglia di scrivere.
Fare uno di quei post lunghi, un po' complicati, molto tardoalescenziali.
Formato Moccia. Formato Jack Frusciante. Formato Holden Caulfield.
Con molte meno pretese, eh.

Vedi anche "post criptico che in due leggono fino alla fine".
Altrimenti detto "sfogo".

Ne avrei dannatamente voglia.

Mettermi a tavolino.
Magari con una penna stilografica.
Prendere un paio di fogli dalla stampante, chè sembra sempre di aver scritto tanto, se non ci sono le righe.
Spiegare a quei tre pazzi dalla incommensurabile pazienza come io mi senta.

Come sia possibile che in due giorni io creda di essere così profondamente cambiato.
Spiegarlo a me stesso.

Vedi anche "sicurezza".
Altrimenti detta "sentirsi bene".

Diceva Murakami. O meglio, un personaggio di Murakami.
Perchè è così imperativo per me scrivere? La ragione è semplice. Perchè per pensare a qualunque cosa ho bisogno di metterla prima di tutto per iscritto.

Vero. Tremendamente vero.

Ma tutto questo bisogno di pensare, io - al momento - non riesco ad averlo.
Non c'è tutto questo gran bisogno di pensare, quando si vive.

29 agosto 2010

28 agosto 2010

Nudisti - Puntata 4 - Identità 2


Gli ospiti di tuo padre o di tuo fratello a casa.
E’ un aspetto con cui un adolescente, che non può semplicemente prendere la macchina e fingere di non esistere per un pomeriggio, deve necessariamente confrontarsi.
Gli interminabili discorsi sull’ufficio o sull’università, gli stessi aneddoti divertentissimi raccontati almeno da 10 anni. E i sorrisini d’imbarazzo se quegli aneddoti riguardano te da piccolo, ovviamente.
Tu, che quella volta dicesti che l’agricoltura non rientrava proprio nelle tue attitudini, mentre aiutavi tuo padre a seminare dei pomodori.
Tu, che da piccolo eri allergico ai biscotti che piacevano a tuo fratello, e lui doveva sorbirsi gli insopportabili gran cereali.
Tu, che leggi sempre, leggi troppo. Che hai cominciato con Topolino, e poi sei passato alla Gazzetta dello Sport. E poi ai libri. E come studia, il mio Marco. Sempre a studiare.

I sorrisini, dicevo. Non esiste altro modo di reagire. Bisogna solo aspettare che si chiuda il discorso dei tuoi capelli lunghi e che si passi avanti, finalmente.

Perché se gli ospiti sono amici di tuo padre, c’è un motivo. Condividono un pezzo della loro storia, condividono ideali ( o almeno idee ), si trovano d’accordo sulla maggior parte dei giudizi intorno a ciò che ci circonda.  Hanno un Erlebnis – un vissuto - simile,per usare un termine abusato dalla mia professoressa di storia e filosofia, fissata con Husserl e con la fenomenologia in genere.

E tu che quell’Erlebnis non lo condividi, che non hai mai capito cosa significano alcune tradizioni, alcune usanze, che sei cresciuto a pane e Lost, che non sopporti i film western di seconda o terza scelta, che non ci vedi davvero nulla di male se qualcuno, una volta tanto, fuma marjuana. Tu, insomma, non puoi fare altro che sorridere. A tuo padre e all’ospite di turno.

Poi, certo, capita. Capita che una volta tanto l’ospite ti stupisca. Ti strappi una parola, perché si interessa – o finge di interessarsi – anche un po’ a te.
E allora magari, capita che in mezzo ai tanti discorsi su quel professore di Clinica Medica o di Parassitologia che ormai è morto, ma tutti se lo ricordano per quanto era insopportabile, ci scappi una domanda. In un accento pseudo napoletano francamente fastidioso, e che non saprei riprodurre, ma – cazzo – una domanda.

“Ti piace leggere, eh?”
“Sì, abbastanza.”
“Che libro stai leggendo, in questo periodo?”
“Diary. Di Chuck Palahniuk “
“Non lo conosco. Di dov’è?”
“ Americano.”
“Ah. Beh, magari lo cercherò.”

Capita che lo stesso ospite ti chieda anche cosa vorresti fare, tu, dopo il liceo.
“Eh, bella domanda.”
“Ma a te cosa piacerebbe?”
“Eh, bella domanda.”
“Possibile che non sai cosa vorresti fare?”
“Sì, che lo so. E’ che molto probabilmente non farò quello che voglio”.
“E perché?”
“Perché, maledizione, non siamo in uno stato che ci permette di farlo. Perché se vuoi fare Lettere non c’è nessuno che ti possa offrire uno stronzo di posto di lavoro. Perché puoi essere bravo quanto vuoi, ma non ce la farai mai. Anche se la tua massima aspirazione è circondarti da 20, 25 ragazzi urlanti. Per trovarne uno da incoraggiare a continuare, per migliorare gli altri. Per plasmare il futuro.”
“E non lo farai?”
“No, non lo farò. Dovrò trovare un compromesso.”
“Compromesso. Che brutta parola. A 17 anni dovresti fregartene, del compromesso. A 35 ci si deve pensare. Adesso dovresti essere più idealista.”

Idealista. Sognatore. Libero.

Sì, è così che dovrei essere.
Non dovermi preoccupare di nulla, se non di essere felice.
Inseguire il mio obiettivo, senza aver paura. Senza aver voglia di scappare per essere me stesso.
Ha ragione, l’ospite di mio padre. Cazzo, non dovrei preoccuparmi del futuro.
Perché il futuro, alla mia età, dovrebbe essere una promessa. Non una minaccia.

E allora adesso avrei voluto dirvi che da oggi in poi me ne fregherò. Che ho recepito il messaggio. Che migliorerò. Che inseguirò il mio sogno.
Avrei voluto riempire questi sei minuti di belle frasi, magari un po’ da luogo comune, ma belle frasi.
Del tipo che i sogni portano con sè un prezzo da pagare, ma lo pagherò volentieri per la loro bellezza e la loro intensità.
Del tipo che, all in all, la cosa più importante non è quanto il mondo ti dia. La cosa più importante è quanto tu possa dare al mondo.
Avrei voluto dirvi che la ricerca della felicità è più importante di qualsiasi obbligo morale nei confronti di te stesso, della tua famiglia, della tua patria.

Avrei voluto, ma non funziona così.
Ci pensavo giovedì scorso, quando Scorti, nel suo pezzo, aveva parlato di una libertà che siamo costretti a perdere, a una certa età.
Ma per molti di noi, per la maggior parte di noi, non funziona così.
Nessuno è realmente libero.
Perché ognuno di noi ha un erleibnis con cui confrontarsi. Ognuno di noi ha i propri “idola”, e oggi la finisco con le citazioni filosofiche, con cui convivere. Ognuno di noi ha il suo piccolo mondo da tenere a galla.

E tenerlo a galla, purtroppo, è il nostro schifosissimo dovere.

E cosa potevo fare, coperto com'ero
e appesantito dalla terra occidentale,
se non aspirare, e pregare per un'altra
nascita del mondo, con tutta Spoon River
sradicata dalla mia anima?

26 agosto 2010

Ripiegare sui remainder

Capita che un'associazione ti rubi l'anima e il corpo per un mese.
Capita che alcune belle persone ti entrino dentro e scavino fino a trovare un minuscolo - ma importantissimo - spazio dentro di te, da sempre ostile ai cambiamenti, da sempre ostile alle emozioni.
Capita di stare sotto il sole per 12 ore, di tornare stanco a casa. Di non saper conciliare i tuoi interessi con quelli degli altri, e scegliere di lasciar perdere te stesso.

Capita di non riuscire più a leggere. Dopo 8 mesi e 67 libri.

E allora a quel punto che puoi fare, se non inserire su aNobii l'ennesimo ISBN di Palahniuk? Da divorare dopo i pasti. Nel poco tempo a dispozione.

Pigmeo.
Pigmeo si chiama quel libro.

Ecco, non leggete MAI Pigmeo prima di Fight Club, o di Survivor, o di Invisible Monster.
Non leggetelo mai.
Perchè rimarreste pietrificati e abbandonereste quel geniaccio prima di arrivare a pagina 18.
E non leggetelo appena tornati da scuola, o da lavoro. Altrimenti la vostra avventura finirà a pagina 34.
Parlo per esperienza personale.

Io penso che per leggere una cosa tipo "Inizia qui diciassettesimo resoconto di operativo me, agente numero 67, in arrivo a struttura distribuzione propaganda di religione di città ______ . Sabbath ______ . Denominazione: _______. A scopo cronaca: diavolo Tony ripete di assente, iniziale pubblica apparizione di questo agente dal debaclè di falso Nazione Unita" ci voglia tanto coraggio, tanto tempo, -10° gradi al sole, tanta pazienza.

E io sono un povero pavido superstraimpegnato senza pazienza che muore di caldo.
Purtroppo.

Allora capita di prendere quei libri comprati tanto tempo fa, remainder. Su IBS. Per raggiungere la quota di sconto.
Quei saggetti da 2 soldi, che non valgono di più, ma sempre meglio leggerli.

E capita di trovarti davanti ad Amos Oz, chè fino a ieri non sapevi nemmeno chi fosse.

Il libretto si chiama "Contro il fanatismo".
E' un elogio del compromesso, parola tanto abusata tanto odiata, per quanto mi riguarda.
In ogni caso, è un punto di vista interessante sulla guerra tra Israele e Palestina.
Ed è l'unico libro del mondo in cui potete trovare un "in fondo Bin Laden ci ama".

Leggetelo.
Anche perchè, in fondo in fondo, sono cinque euro...

24 agosto 2010

Da quando c'è il mercatino

- So cos'è la ALI
- Non leggo più un libro
- Non traduco più
- Non gioco più con l'X-Box
- Sono a casa solo per dormire
- Mangio panini assurdi "caciotta, tonno, melanzane"
- Non vedo più film
- Non so una mazzuola di calciomercato
- Non esco più con gli amici
- La mia bacheca facebook è invasa da messaggi
- Mi sveglio alle 6.50
- Muoio di caldo
- L'unico svago sono gli autogavettoni pomeridiani
- Non scrivo più sul blog
- Non vivo più

- Mi sento bene