22 ottobre 2010

Road to nowhere

Aveva dimenticato la scuola.
Completamente rimossa. Cancellata.
“Colpa di Milano”, pensò, svegliandosi al bip-bip del suo fedele cellulare.
In effetti le classiche tappe di avvicinamento alla prima odiosa giornata scolastica, quell’estate, erano mancate.
L’acquisto dei libri, la spasmodica ricerca dell’ultima Smemo, di qualche quadernone e di un astuccio decente.
Operazioni che odiava, ma che – in un modo o nell’altro – cominciavano a inserirlo nel mood da liceale.
Aveva delegato tutto alla madre, quell’anno. Che aveva comprato la metà dei libri, un orrendo portapenne molto anni ‘80 e un diario della Gazzetta dello Sport.
Quasi non riusciva a ricordarsi delle volte in cui andava a comprarla lui, la roba. Con suo padre.
Suo padre.
“Ma dove le hai prese, ‘ste cose?”
“Una volta ti piaceva, il calcio.”
“Appunto. Una volta.”

Eppure gliel’avevano detto che non sarebbe stata una grande idea, tornare da Milano una dozzina di giorni prima del suo “ultimo primo giorno di scuola”.
No, non avevano ragione. Ma forse nemmeno tutti i torti.

La strana euforia della sera precedente stava già sparendo.
“Colpa della scuola”.
Mise su un paio di jeans e le scarpe da ginnastica un po’ rotte che da sempre lo contraddistinguevano. Indossò anche la maglietta “Fashion is for idiots”, regalatagli da Marta.
Sapeva che il resto dei suoi compagni di classe lo avrebbe guardato male. Sapeva che lo avrebbero preso in giro per quel taglio di capelli un po’ approssimativo. Sapeva anche che probabilmente non avrebbe avuto il coraggio di parlarle.
Andò a svegliare il gatto, gli accarezzò quel pelo ispido che meritava una lavata.
Nella cartella un quaderno, il diario, tre matite e lo skate.
Prima di uscire di casa, ingurgitò un po’ di quell’insulso caffè da due soldi che sua madre gli preparava, credendo di fargli un piacere.

“Si ricomincia”.

Ricordava il suo primo giorno di scuola. Il primo primo. Quello vero.
I suoi compagni di classe non ricordavano nulla.
Lui invece sì. Ogni insulso dettaglio.
L’abbraccio di sua madre, quello stupido “da oggi sei un ometto, Nico”. Il bacio di suo padre.
Suo padre.
La faccia scocciata di sua sorella, all’epoca quattordicenne. Da quel giorno in poi le sarebbe toccato anche accompagnare Niccolò a scuola, con tutti i fastidi del caso.
La sua mano vagamente sudaticcia.
Ricordava le facce stranite di quelli che sarebbero diventati i suoi “amichetti”. Con cui avrebbe stretto amicizie one shot di cinque anni. Che si sarebbero poi spente, come un fuoco acceso male.  Float into a mist, avrebbe cantato Lou Reed.
Aveva subito approcciato una bambina carina. Elena, si chiamava. Le aveva stretto la mano con la tenerezza e la temerarietà dei cinque anni.
Lei era scoppiata a piangere, è vero. Ma questo è un altro discorso.
Quel giorno aveva conosciuto anche Max.
L’unico di quella classe che vedesse ancora. Che avesse continuato a frequentare anche dopo essere stato bocciato. O, per dirla alla maniera di sua madre, “dopo aver perso un anno”.
Anche dopo la morte di suo padre.
Suo padre.

Erano diversi, loro due. Molto diversi. Uno molto aperto, l’altro introverso. Uno un po’ superficiale, l’altro parecchio sensibile. Uno patito di tecnologia, l’altro romantico pittore.
A volte sembrava che la loro amicizia andasse avanti solo per inerzia. Perché non conoscevano molte altre persone, perché non avevano voglia di conoscerne.
O forse no.
Forse era proprio quest’essere molto diversi che li rendeva così uniti.

Avevano passato insieme più della metà dei loro pomeriggi. Tra stupide partite a Fifa, versioni di latino copiate a vicenda e lunghe passeggiate.
Insieme avevano scoperto il fumo. Insieme avevano bevuto la loro prima birra. Insieme.
Certo, a volte capitava di doverlo accompagnare in un improbabile giro al centro commerciale per trovare l’ultimo accessorio per I-Pad, o di dover ascoltare controvoglia gli Oasis.
Ma Max era quasi tutto ciò che avesse. Max era suo amico, Max era suo fratello. Max era la sua vera famiglia.

Mentre pensava, si era fermato davanti all’uscio. Quasi senza accorgersene.
Si stupiva spesso di come gli altri riuscissero a perdersi in pensieri e considerazioni continuando a vivere la loro vita. Continuando ad andare al lavoro, continuando a cucinare, a lavare i piatti o a stirare camicie.
Lui non ne era capace.
Era convinto che pensare sia un lavoro. Qualcosa di impegnativo, che deve assolutamente concentrare ogni singola sinapsi del cervello di una persona.
Non riusciva a pensare mentre camminava. Mentre era a scuola. Mentre ascoltava musica.
No, non ci riusciva.
Doveva prima fermarsi, buttarsi sul letto, sedersi.
Poi poteva cominciare a riflettere, immaginare. A creare.
Molti gli rinfacciavano la sua pigrizia. Molti gli dicevano che non combinava mai niente.
Non era così. Lui pensava, ed era già tanto.

Ormai aveva perso l’autobus, doveva fare quei due chilometri a piedi.
Probabilmente sarebbe arrivato tardi al primo giorno di scuola.
Triste, molto triste.
Anzi, probabilmente non sarebbe affatto arrivato. 
E no, non gli importava.
Prese il lettore MP3 e ricominciò a guardarsi intorno, con “Shine on you crazy diamond” nelle orecchie.

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