5 settembre 2010

Inutilmente autoreferenziale

Perchè scriviamo?
Domanda stupida, lo so. Domanda che già in milioni si sono posti prima di me. Domanda a cui migliaia hanno risposto. E con risultati sicuramente migliori di questo post.
Perchè tracciamo dei segni, convenzionalmente tramutabili in parole, su un foglio di carta?
Per rendere indimenticabile un momento. Perchè diventi immortale. Per lasciare qualcosa che resta, avrebbe risposto il pluricitato mio professore di latino, che peraltro - a quanto sembra - a breve non sarà più tale.
Concentrare un attimo in una pagina di soggetti, predicati e complementi. Affinchè possa essere ricordato, affinchè tutti coloro che si troveranno a leggere possano bearsene.

Sì, ok. E' così, non lo metto in dubbio.
Tutto sommato è per questo che scriviamo diari. Di scuola, di bordo, personali. E' per questo che apriamo milioni, miliardi di minuscoli bloggetti. Nella speranza che qualcuno prima o poi ci noti e ci trasformi nei più grandi degli scrittori.

Ma non è l'unica risposta.

Alcuni scrivono per sentirsi utili. Riportare notizie, aggiungere punti di vista, fare dibattito. Rendere un servizio alla comunità. Scrittori altruisti, nati per rendere migliori gli altri nel breve periodo. E se non migliori, più ricchi. Giornalisti, opinionisti, editorialisti. Conosciuti, ma presto dimenticati.
Che si rivolgono a tutti, che vogliono che la loro parola sia nota a tutti, dall'ultimo lattaio al primo ministro.

Altri lo fanno per sfogarsi. Scaricare sulla carta i propri pensieri, le proprie sensazioni, la propria frustrazione. Non hanno bisogno che qualcuno li legga. Scrivono per scrivere. Scrivono per pensare. Scrivono per smetterla di vivere. Almeno per qualche minuto. Almeno fino a quando la pagina non sarà finalmente riempita.

Poi ci sono loro. Quelli che scrivono per essere capiti. Che riempiono il foglio di parole incomprensibili con il solo scopo di far impazzire il lettore. Sperando che - prima o poi - arrivi qualcuno a dire "Sì, ok. Ho capito. E, cazzo, hai ragione tu."
Parlano per metafore, loro. Sono gli inventori delle frasi criptiche. Sperano che quel verbo possa risvegliare quella sensazione. Che quell'aggettivo possa far ricordare la scena del film che credono di stare vivendo.
Si augurano che quel post del 18 ottobre venga ricollegato a quello del 27 agosto dell'anno prima, da cui trae origine.
Si rivolgono ad un lettore ideale. Che non conoscono. Che non esiste, molto probabilmente.

Io non so dove collocarmi.
Per certi versi, fino ad ora questo blog è stato abbastanza eterogeneo.
Ho riportato notizie che mi facevano alzare sulla sedia. Ho cercato - quando possibile - di esprimere delle idee. Mi sono sfogato, con la consapevolezza che nessuno avrebbe capito. E senza alcuna voglia di essere effettivamente capito.

Ma credo che, tutto sommato, io possa rientrare nell'ultimo gruppo.
Ho sempre parlato ad un mio lettore ideale.
All'inizio era una persona conosciuta, l'unico che mi leggesse davvero. Poi un ragazzo che abita ad Amsterdam, che visitava ogni giorno il mio blog.
(Grazie, google analytics.)
E, dopo ancora, te. Te. Te. Te. Soprattutto, te.

Ho aperto i commenti, sperando che il lettore ideale si materializzasse davvero. Sperando di essere capito. Sperando di sentirmi meglio.

Poi è successa una cosa.
E' successo che il lettore ideale sia davvero comparso.
E che io ora sappia perfettamente a chi rivolgermi, quando scrivo queste parole. Che non mi interessa cosa gli altri pensino, di me. Dei miei post su Bersani, delle mie elucubrazioni mentali.
So che ci sei tu, ora. E davvero non me ne frega più niente.

Continuerò a scrivere. Per te.

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