Trovare conforto nella vaghezza del futuro per fuggire dalla propria esistenza. Dare una data, tracciare una linea sull’orizzonte dell’avvenire, sicuri che da quel preciso momento in poi il patire avrebbe finito una volta per tutte di trovare ragion d’essere.
In quell’istante, le membra avvolte in un gentile asciugamano, la sua linea era quella vasca.
Gustava già il bollore dell’acqua sul suo corpo inerme, nudo e gelido, l’attimo in cui la sua mente sarebbe stata completamente assorbita da quel delimitato e inoffensivo fuoco liquido, dove immergersi nell’atemporalità della perdizione.
Cercava di non seguire il solito iter della paura, tipicamente umano: prima i piedi, poi – dolcemente - le ginocchia, quindi il resto del flebile corpo. Non voleva abituarsi, ma divenire con un solo atto di iniziazione un tutt’uno con quell’acqua.
Era quindi solita gettarsi più rapidamente possibile. Tuffarsi, quasi, nonostante l’altezza della vasca non superasse i 60 centimetri.
Trasformare improvvisamente la sua essenza. Non come prodotto di una qualsivoglia azione, ma semplicemente identificando se stessa con quell’immanente calore, assolutamente provvisorio eppur sempre vivente e ricreabile.
Era minimo, il dolore che sentiva, rispetto alla delusione che – lo sapeva - sarebbe scaturita dagli istanti immediatamente successivi.
“Il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco”, aveva letto in un passo che le aveva riportato alla mente questo suo rito quotidiano.
Corpo e animo si sarebbero abituati, estinta la vampa.
Una sensazione di minaccioso languore si sarebbe impadronita delle sue membra solo momentaneamente reattive, il tepore dell’abitudine avrebbe corroso quella mente che tutto aveva visto, che tutto aveva conosciuto, nella purificazione del bruciore.
C’era qualcosa di genetico, forse, in quell’avversione. Come nei secoli passati il putridume delle acque soleva portare epidemie, così avvertiva che quella brodaglia di se stessa nella quale sarebbe stata avvolta per la successiva mezz’ora l’avrebbe per l’ennesima volta infettata.
Già si vedeva sfogliare stancamente la rivista, cercando di bagnarla il meno possibile.
Già immaginava la schiuma afflosciarsi al tocco involontario delle sue dita, rivelando l’innaturale grigiore di quel fluido ormai innominabile.
Si ammirava chiudere gli occhi nell’atto di affogare tutto il corpo in apnea, ascoltando il ritmo naturalmente irregolare del suo cuore, avvertendo lo sporco invaderle i capelli.
Se era davvero simile a quello, lo stato fetale, doveva smettere di pentirsi di esser nata.
Si spogliò finalmente di ogni indumento, rivelando l’inconsistenza delle sue forme. Infilò il dito medio per controllare che la temperatura non fosse già scesa troppo, tanto da non toglierle almeno quel bagliore di infinito, e sprofondò.
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