10 luglio 2011

Di leggermente diverso

Lì, distesi sulla sabbia, guardavano le onde agitarsi sul lungomare delle loro tempeste interiori, alternando mugolii di sonno a fitte mura di parole in libertà.
Discorrevano da più di un'ora, ormai, gli occhi su quel blu dipinto di nero che è il mare notturno, lontani da ogni giovanile falò, lontani dal fuoco di quelle gioiose sere di luglio che non potevano -ora- non tornare alla memoria, datate come una fotografia di Degas.

La sua leggera camicetta a pois stonava con il fascino decadente di un'atmosfera che - se solo avessero voluto - avrebbero facilmente potuto riempire di importanza, trovando in essa lo spunto iniziale, lo slancio per la fine.

Lei non voleva. Adagiata sui suoi soliti discorsi, trascinava stancamente la conversazione, cercando in lui più un appoggio che un interlocutore.

Era incredibile, come si fossero ridotti a quel punto. A parlare del cane della sorella, delle buste della spesa, del regalo per il prossimo compleanno della nipotina. Sotto quelle stelle. Di fronte a quel nero che solo lui sembrava trovare ineluttabile, etereo.

Lo avvertiva, lo sentiva. Vedeva -al di là della profondità del suo sguardo- la netta sensazione della fine. E continuava, proprio per questo motivo. Ora il meteo, addirittura.
La pioggia che avrebbe ulteriormente ingrossato quelle onde. Le nuvole, presto a ricoprire la luna.

Luna, sua compagna di viaggio. Non poteva non indugiare in quel pensiero. Nel "come è possibile". Le immagini richiamate alla memoria lo spingevano nella primavera della loro amicizia, in quelle appassionate e feconde discussioni sul circostante, sull'artificiosità della realtà, la loro personalissima critica all'altrui ragione.
Erano corpo unico, allora, i cui organi si prendevano una pausa dai regolati meccanismi del loro funzionamento, in un meditato confronto da cui trarre nuova, pura linfa vitale.

Spalancò le narici alla salsedine, cercando di non lasciarlo intendere. Lo vedeva annuire, nella maschera che copriva il suo meditabondo riflettere. No, naturalmente non la stava ascoltando. Non che volesse essere realmente sentita.

"Come se il nostro mondo si frapponesse, ora, tra i nostri animi e i rispettivi oggetti del desiderio. Senza quella dionisiaca forza trascinante, impeto furibondo, che un tempo ci appagava. E senza la possibilità di accontentarci dell'apollinea caricatura di noi stessi, forma impressa a nostra immagine e somiglianza, eppur forma, forma!"

Cercò di farlo sorridere menzionando l'uomo incontrato al bar, e il suo cappello assurdo.

"Assurdo, assurdo... Come il traffico alle tre di notte, come un buon consiglio. Come starmene qui, a parlare con una sconosciuta, dietro il filtro che abbiamo dovuto mettere alle nostre essenze, rendendole tristemente imperfette."

Non annuiva nemmeno, ora. Capiva di averlo perso definitivamente, sentiva di non poter più far nulla per trattenerlo, con la sua misera diatriba sui colori di quel borsalino.

Eppure, qualcosa lo legava. Qualcosa lo avvolgeva. "L'intimità, non perchè renda necessariamente felici, ma perchè necessaria."

Le strinse la mano, sentendola andar via.

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