21 luglio 2011

Per le delizie, Lisaveta

Vedeva poco, dal finestrino. Il bar di quel terminal di periferia in cui arrivava per la prima volta, un tratto di asfalto nero, leggermente inumidito dalle piogge di quei due primi giorni di viaggio, persone accompagnate dai loro più o meno ingenti bagagli.

Nella cuffia destra un pezzo di Wagner, a dargli l'impressione di maestà di cui aveva bisogno, per la continuazione di quel percorso di sfida a se stesso, di allontanamento da quel che chiamava, con un punta di sprezzante e incongrua genericità, "altro". Come la vecchietta seduta accanto a lui, appena salita, settimana enigmistica in mano, pesante valigia sulle nude ginocchia, che parlava con cadenzato candore dei suoi tre tesori, della città nuova che l'aspettava, del ritorno così lontano, di lì a tre mesi.

Tornò a guardare, fuori dal finestrino, la pioggia che cadeva sugli ombrelli di tre impiegati della compagnia. Tre autisti, forse, o bigliettai. Di età diverse, si scambiavano un giornale sportivo e giocose battute, a quanto si poteva capire dai muti movimenti dei loro corpi ben pasciuti.
Come affascinato dalla spontaneità del loro incedere, dalla naturalezza dei loro gesti, dalla calma gioiosità del loro essere, chiese scusa alla signora e si mise a seguire il loro labiale.
Sembravano discorrere di un tipo, salito quella stessa mattina sul "mezzo" di uno dei tre, che continuava a chiedere con insistenza gli orari per il ritorno, perorando la sua causa con esempi di amici rimasti a piedi per errori altrui.

Colui che parlava, issatosi ormai sul trono di re e conduttore della conversazione, orgoglioso intrattenitore, imitava la sua "parlata" abruzzese, gesticolava con vibrante maestria la sua petulante insistenza, suscitando istante dopo istante sorrisi di comprensione, furente indignazione, mordaci risa di scherno.

Continuò ancora a bearsi di quello spettacolo, travolto dal fascino dissonante che aveva su di lui quella schietta normalità, quell'aperta e verace allegria, alla quale non si sentiva in grado di partecipare - chiuso nel suo mondo di pudica e candida immaterialità, devastato nel profondo dalla sua catena di riferimenti, inasprito dal disprezzo derivante dall'illusorietà delle sue conoscenze - ma che lui - lui scarto, lui inetto, lui distratto, distrutto e distruttore, lui, rifiuto della società che rifiutava - non poteva fare a meno di ammirare segretamente.

Fece tacere il Tannhauser, salutò distrattamente la signora e i suoi mai visti nipotini, scese dall'autobus, cercando di nascondere ogni espressione che potesse far intendere una qualche forma di dileggio.

Si piantò sui piedi, appoggiò lo zaino a terra, e applaudì.

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