13 dicembre 2011

Memoria delle mie ragazze tristi

Quando la mia prima ragazza mi lasciò, passai (capita a tutti) attraverso il tipico periodo di acceso dibattito interiore tra una ragione che mi incitava a lasciar perdere la questione e a concentrarmi in altro e una parte dell'intelletto - più o meno profonda di quella, non si è mai abbastanza bravi in queste cose per poterlo affermare con certezza - che non si dava pace, agitandosi vorticosamente tra i due opposti poli del sentimento e dell'odio.
Inutile dire che la ragione ben poco poteva contro quella forza. Altrettanto inutile affermare che nessuno avrebbe potuto distogliermi da quel conflitto.
Fu in uno di quei pomeriggi di discussione interiore che, tra una lettera sminuzzata in minutissimi frammenti rigorosamente inceneriti nel camino casalingo e un pianto prima volontariamente e inconsciamente autogenerato ascoltando proprio quella canzone lì e poi soffocato per mantenere ai miei occhi già umidicci un minimo di dignità, concepii in un lampo di genio il progetto che avrebbe potuto restituirmi la felicità prima conquistata e poi indebitamente sottrattami.
Pensai che lei mi aveva conosciuto poco prima di legarsi a me, e – reputando impossibile che fosse stata affascinata dal mio modesto aspetto fisico o dal mio a tratti insopportabile modo di rapportarmi agli altri – conclusi che quel suo cedimento interiore fosse stato provocato dalla mia moderata (ma a tratti ben millantata) cultura. E che, se questo era avvenuto una volta, non c'era motivo per cui non si sarebbe potuto ripetere.
Aiutato nel mio folle e ragionatissimo progetto da un ottimismo da cartone Disney e da qualche parola confortevole di un paio di filosofi deterministi riletti in chiave adolescenzial-personale, cominciai a sfogliare i miei libri in cerca di evidenziate citazioni da ricopiare su anonimi fogliettini di carta colorati, successivamente depositabili a scuola, nel suo giubbotto.
Uno al giorno, metodicamente, con il garbo dell'uomo esperto, con la sensualità della minuzia, attento a non ripetere le frasi che avevo già riciclato nel mio primo approccio alla seduzione.

Ne preparai quattro, sfogliando ardentemente le pagine ancora troppo bianche per avere la pretesa di definirsi davvero studiate.
Scelsi, per incominciare, un'elegia di Tibullo.
“Che gioia, coricato, ascoltare i venti che infuriano,
e stringersi teneramente la propria donna al petto,
o, quando lo scirocco invernale avrà versato la gelida pioggia,
immergersi senza pensieri nel sonno al ticchettio delle gocce!”.

Perchè facevamo il Liceo Classico, perchè ancora non l'avevo studiato, perchè bisognava in qualche modo omaggiare la nostra comune educazione. Perchè – e non era un dettaglio da poco – nella stessa elegia, solo dieci versi più tardi, compariva un
“Della gloria non so cosa farmi, o mia Delia; pur di restare
con te – va bene! - mi chiamino pure ozioso e indolente.
Su te si posi il mio sguardo, quando sarà per me venuta
l'ultima ora.”
che avrebbe potuto concludere con un ideale cerchio il mio percorso, e che mi avrebbe finalmente rivelato come il misterioso spasimante.
Preso un cartoncino dello stesso colore, scrissi in una bella grafia non troppo riconoscibile anche quei due distici e lo riposi in un luogo sicuro.

Aggiunsi poi alla mia (nostra, nostra!) personale collezione la frase di Turgenev che Dostoevskij riporta nella prima pagina delle Notti Bianche
“Fu forse creato per rimanere vicino al tuo cuore, sia pure per un attimo?”
e – visto che essere troppo originali rischiava di essere controproducente – anche un verso di De Andrè, quel “continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?” che tanti pomeriggi di distratto studio aveva allietato.

Soddisfatto, conclusi la mia opera e mi gettai con ritrovata tranquillità tra le pagine del libro di storia.
La serenità della notte (la prima notte serena da non so più quante settimane!) lasciò il posto ad una classica mattina autunnale di vento e pioggia.
Aspettai, da bravo ragazzo ligio alle regole d'istituto, tutta la prima ora, con il cuore in mano, per poi finalmente chiedere all'insegnante di lettere di uscire, il mio meraviglioso biglietto nella tasca della felpa.
Salii i tre piani che mi separavano dalla classe della mia prima ragazza, evitando con cura il contatto visivo di qualunque essere umano mi passasse vicino, e raggiunsi l'argentato attaccapanni che custodiva la cassetta di sicurezza delle nostre parole.

Tre mesi è un periodo piuttosto breve, nel lungo corso del tempo, ma immaginavo fosse sufficiente per distinguere un suo prezioso indumento da quello di tutti gli altri. Purtroppo, mi sbagliavo.
Provai ad andare per esclusione, cercando disperatamente di ricordare – se non il modello – almeno il colore. Nulla, vuoto.
Stordito dalla mia inconcludenza, angosciato dalla mia disattenzione, incredulo di come si possa guardare estasiati una persona senza per questo vederla, e soprattutto preoccupato dall'effetto che una mia prolungata assenza dalla classe avrebbe potuto avere sul mio iter studiorum, tornai - abbattuto ma un po' più consapevole - in classe, le pive nel proverbiale sacco, il povero Tibullo stretto nelle mani sudaticce.

1 commento:

  1. Non so se è più geniale, e al contempo folle, l'idea che hai avuto,

    se sono più eleganti passaggi come "la sensualità della minuzia"

    oppure se più piacevole la maniera in cui hai composto il tutto.

    Bhè, questo è poco importante.
    Fatto sta, che il post mi è piaciuto molto! :)

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