Esistono fondamentalmente due modi per
rapportarsi a un prodotto culturale in senso lato, che sia una
tragedia greca, un dipinto o uno spot del pennello Cinghiale degli
anni '80.
Due modi, due prospettive.
La prima è una prospettiva
“attualizzante”. Ad esempio, posso leggere Sofocle lasciandomi
prendere dalla forza d'animo di Antigone, eroina sola contro un mondo
che non condivide i suoi valori e contro il quale combatte con
discreti risultati. Oppure posso ammirare Guernica di Picasso per il
suo profondo messaggio pacifista. O ancora riguardare Giochi senza
Frontiere rimpiangendo gli anni '90 e pensando a quanto si stesse
bene allora, quando i boschi erano grandi, la campagna verde, si
giocava con il supersantos e non c'era carne di cavallo nei
tortellini.
Si può fare, ed è lecito, e merita
tutto il mio rispetto.
E spesso è così che nascono i
prodotti culturali della contemporaneità. E' così che è nata
l'Antigone di Brecht, due millenni e mezzo dopo quella di Sofocle,
ambientata nella Germania nazista degli anni '30. E' così che è
nata la rivisitazione di Guernica a opera di Ron English, ora in
mostra al Mattatoio del Testaccio, è così che questa trasmissione
si era arricchita nella prima edizione – breve notazione
filologico-autoreferenziale – di uno spazio “Aridatece Giochi
senza frontiere”.
Si può fare, è lecito. Merita tutto
il mio rispetto.
Poi c'è un'altra prospettiva, quella –
per così dire – storica. Ad esempio, leggerò l'Antigone –
naturalmente in greco – e cercherò di valutarla sulla base delle
caratteristiche strutturali del teatro sofocleo. Oppure guarderò
Guernica e ne analizzerò gli influssi delle maschere rituali
dell'Africa nera. O ancora ripercorrerò la storia di Giochi senza
Frontiere e cercherò di indagare i motivi economici alla base della
sua chiusura o la sporgenza degli incisivi di Maria Teresa Ruta.
Si può fare, ci sono schiere di
accademici che ci si divertono un mondo, e genera una quantità
spropositata di letteratura critica, spesso base per chi voglia poi
attualizzare. Merita tutto il mio rispetto.
E poi ci sei tu, che sei entrata nella
mia vita giovedì scorso e rimarrai simbolo di un po' di cose. Tu e
quelli come te, perchè ce n'è un sacco, di tipi come te, lì fuori.
C'è il “tuo” modo.
Ti chiami Caterina Napoleone, sei la
curatrice a Pisa di una mostra – peraltro carina, che consiglio –
su Bruno Caruso, e non sai quanto spero che tu, per qualche casuale
ragione, mi stia ascoltando.
Tu, che “ogni linea è un capolavoro
ineguagliabile”. Tu, che ogni idea “è una grande prova di
coraggio”. Tu, che ogni opera è “simbolo del percorso
intellettuale di un'intera generazione.” Tu, “che ogni
adolescente nei primi anni '60 aveva in camera un poster dei Beatles,
uno dei Pink Floyd e uno di un quadro di Caruso.” Nei primi anni
'60. I Pink Floyd.
Tu, Caterina Napoleone, colonnista
anticonformista de “Il Giornale”, fatina della parlantina
fluente, puttana del sorriso allusivo. Il tuo modo di approcciarti a
un prodotto culturale non è né storico, né attualizzante. E'
semplicemente idiota.
E' semplicemente idiota. E ti do una
notizia: non si può fare, non è divertente, non ha il rispetto di
nessuno, non produce un cazzo e si merita solo dei grandi, unici,
irripetibili, appassionanti e coinvolgenti calci nel culo.
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